domenica 22 dicembre 2013


Pubblico qui di seguito altre pagine della
mia raccolta VERSI ORTICANTI

         COME CE SCRIVO                                    

Fior de trifoglio,
Voi ce parlate ormai in guazzabuglio,                   
Io mo ce scrivo qua come ce voglio.

Fiore verace,
Se lui occhei e poi vikend ce dice,
Io qua ce scrivo come a me me piace.        

 Fiore de mazzo,
Se con questo linguaggio ce so’  rozzo
Con l’orticare un po’ me ce sollazzo.

 Fiore de fratta,
Sto poeta ce studia e ce cianchetta,
e poi con due metafore ciabatta.

Fioretto mitico,
Stato sociale non fa companatico,
Ora l’uèlfa c’è per il politico!

Fior de fraschette,
Mo qui ci/ortico un leader che dibatte
E un premier che governa o se dimette.

Fiori d’aneti,
Tìchet e tàrghet mo ce sono usati,                    
Ma io l’orticherei dentro i roveti!

Fior de legume,
Sto poeta ce cerca il novellame,
Ma scrive versi de romanticume.

Fior de finocchio,                                                         
Sto mistilingue c’è solo un inguacchio,
Tale che puoi chiamarlo anche pastrocchio!

Fiore de bergamotto,
Insieme col disfarsi del dialetto                               
La lingua ce va a carte quarantotto!

Fiore de fico,
Al pasticcio linguistico ce buco,
Prima io me ci/arrabbio e poi ci/ortico.

Fioretto in vista,
Con tutte le metafore che impasta
Sto poeta me pare un secentista!                      

 

 

lunedì 2 dicembre 2013

Facendo seguito alla PREMESSA, pubblico qui
le prime tre pagine di stornelli della mia raccolta
VERSI ORTICANTI edita con youcanprint

       PERCHÈ  CE  ORTÍCO                    
Fior d’agrimonia,
Ce rosico a sto mondo de pecunia,
In cui tutto finisce in cerimonia.

Fiore de cardo,
M’arrabbio, me ce rodo e non demordo
Con questo mondo ipocrita e bugiardo.

Fior de radicchio,
M’arrabbio con sto mondo e ce ridacchio,
E il fegato de dentro me rosicchio.

Fioretto emetico,
A sto poeta alla parola estatico
Con l’ortica facciamogli solletico!

Fior d’albicocca,
Diamo a sto mondo un graffio per ripicca
E pizzicotti a chi ce tocca tocca!

Fiori montani,
A sto mondo de pifferi e cialtroni
Per beffa ora battiamogli le mani!

Fior de patata,
Ai ciurmatori de morale ignota
Facciamogli un versaccio e una fischiata!

Fioretti a ciocche,
Diamogli un’orticata e quattro pacche
A sti poeti pieni de brilocche!
                                                                                     
Fior de lenticchia,                                                       
Sto verso non ce brucia e non punzecchia,
Come l’ortìca invece ce mordicchia.

Fiore de pruno,
Sto verso ortìca tutti a mano a mano,
Anche se non ce scortica nessuno.

Fiore sintetico,  
Se sto stornello critico c’è zotico
Forse a qualcuno ce farà solletico.

Fiori fioriti,
Con sti versi ortichiamo sti poeti
Da metafore in prosa sdilinquiti!

 

                                                            

sabato 23 novembre 2013


                                           STORNELLO
   Nell’agosto scorso pubblicai qui un mio succinto scritto sugli haiku, in cui mi riferii al nostro frammentismo novecentesco col richiamo in particolare al “M’illumino d’immenso” ungarettiano. Ma riguardo alla sinteticità o alla brevità delle composizioni poetiche ci si potrebbe agevolmente richiamare anche al nostrano e popolarissimo stornello; non appartenente alla nostra produzione classica, è vero, ma cui pure il grande Carducci volle dare una dignità letteraria sia pur limitatamente col suo:
         Fior tricolore,
        Tramontano le stelle in mezzo al mare
         E si spengono i canti entro il mio cuore.
   Infatti lo stornello è un componimento di poesia popolare, una struttura poetica usata  comunemente per il canto dagli stornellatori, in genere improvvisatori come i poeti a braccio del passato, che però cantavano in ottava rima. C’è da osservare che le caratteristiche dell’ottava consentivano una composizione distesa, narrativa, di largo respiro, per cui essa è stata utilizzata in poemi e poemetti epico-cavallereschi e di gesta; al contrario le caratteristiche dello stornello, per la sua struttura costituita da soli tre versi, consentono spiccata sinteticità espressiva, capacità di battuta e spirito di motteggio.
   Proprio il motteggio presso il popolo, specialmente romano e toscano dotati di spontanea mordacità espressiva, ha favorito la composizione estemporanea del contrasto poetico, a volte appassionatamente lirico, ma a volte anche canzonatorio, come nei cosiddetti stornelli a dispetto.
  Va sottolineato ancora la sinteticità espressiva dello stornello, resa necessaria dalla brevità essenziale della composizione.  Infatti esso  è costituito sì da tre versi ( un quinario più due endecasillabi) ma il suo contenuto è espresso nel solo distico di endecasillabi rimati in assonanza ( il primo verso, quinario, ha solo valore vocativo con il nome di un fiore ed è rimato in assonanza col secondo e in consonanza col terzo).
   Io l’ho usato in una mia breve raccolta intitolata VERSI ORTICANTI, composta da 164 stornelli ed edita da Youcanprint: ne pubblicherò dei brani qui di seguito. Però mi domando ancora: Per poterci esprimere brevemente e sinteticamente in versi può davvero essere utile ed efficace l’haiku? Davvero questo può essere alternativo alle nostre modalità originali, quali le forme del frammentismo novecentesco ed anche del popolare stornello?
   Per ora riporto qui di seguito la breve PREMESSA alla mia raccolta VERSI ORTICANTI:
                                         PREMESSA
  Per questa mia tematica satirica, ho fatto ricorso al vecchio stornello popolaresco, passando dal modo “a dispetto” a quello epigrammatico. Più semplicemente ho voluto scrivere epigrammi in forma di stornelli, in modo da unire l’efficacia e la rapidità      di una composizione brevissima  all’atmosfera  popolareggiante   di un mio linguaggio, che non vuol essere  né una lingua né un dialetto determinato, ma che, in un certo qual modo, potrebbe dirsi di tipo idiolettico.
  Qui ho raccolto complessivamente 164 stornelli,  scritti negli ultimi anni, disponendoli per quattro in ciascuna pagina. I primi tre stornelli di ogni pagina trattano di un argomento specifico, il quarto invece, quasi come un tormentone che si estende per tutta l’operetta, vuole ironizzare sull’intimismo solipsistico, sul sentimentalismo emotivo e sull’uso di metafore eccessive di troppi poeti, tesi a cogliere un ipotetico lirismo emanato dal solo artificio della parola, slegata spesso anche da quel contesto metrico che è proprio della struttura poetica.

 

 

 

lunedì 11 novembre 2013


                                    ARTE E POESIA OGGI
  •    Il materialismo borghese del nostro tempo è devastante non solo per la poesia, ma per tutte le arti in genere. Esse sono concepite come merce da buttare sul mercato, computate nel bilancio delle entrate e delle uscite, svuotandone l’intrinseco valore. La cultura stessa è sminuita  e le opere letterarie vengono messe in listino con la classifica dei libri più venduti, come qualsiasi mercanzia, non con i criteri dell’esposizione critica del gusto e della validità letteraria.  La poesia è pressoché scomparsa dall’insegnamento nelle scuole e dai libri di testo, concepiti come manuali di discipline. Per risparmiare pochi milioni in bilancio, la storia dell’arte è stata compressa ad un’ora d’insegnamento settimanale per classe, quando non è stata soppressa del tutto. Peggio è toccato alla musica. In televisione e nell’editoria trionfa però la cultura culinaria, con grande dovizia di cuochi e ricette. Rendono in guadagno e pesano nel bilancio delle entrate e delle uscite. Un ex ministro ha detto recentemente che la cultura non si mangia. Inutile un qualsiasi commento in merito. Inutile ricordare che l’uomo non vive di solo pane, cioè di sole cose materiali, e che la storia e il progresso dell’umanità non sono fatti solo di guerre e di sacchi di farina. E’ materialismo della più bell’acqua ed espressione verace della mentalità borghese.  Con i premi di medagliette e coppette anche nelle Pro Loco dei più  piccoli paesi, i politicanti del secolo scorso avevano ridotto la poesia e la pittura al rango delle gare di boccia e di briscola nelle osterie. Per esigenze di bilancio e in tempo di crisi,  ora non ci sono più medaglie né coppette né concorsi. Comunque la poesia è stata stravolta nella sua funzione, nella sua essenza, nella sua forma. Sembra che corrisponda ad un’attività di evasione del tutto personale, tra il divertimento e lo sfogo di animo in pena. E’ difficile tentarne un riorientamento e un recupero, almeno in termini della sua vera e più specifica funzione. Lo spirito borghese ha solo la prospettiva del rapporto spesa-ricavo-guadagno. La poesia e l’arte sono altro e non hanno niente a che vedere con la merce e col mercato. Bisogna tentare di navigare contro corrente; forse ancora per qualche secolo!

mercoledì 16 ottobre 2013

             LA POESIA
                  V

Vogliamo dir cos’erano i poeti
Nei tempi dei signori e dei baroni?
Erano allora pifferi e tromboni
Al servizio dei nobili e dei preti.

Oggi i magnati vogliono mansueti
Prosatori, ché svolgano missioni
In carta e video a tessere ragioni
Secondo gli interessi assai segreti.

Altro che carmi ed inni o poemetti!
Ci vogliono oggi articoli ben chiari,
Porcate varie, moniti e fischietti

Da rifilare con modi solari
In momenti opportuni o maledetti
Per battaglie nel regno dei denari ,  

E promuovere il mondo dei somari.    

 

domenica 6 ottobre 2013



                          LA   POESIA

                                  IV


      Dell’arte del poeta il vero dire
      Ch’era solenne ed alto ora è dimesso,
      Prosastico s’è fatto per sfuggire
      Il timbro che di dentro v’è connesso.

      Discendere si vuole e non salire
      Per l’ardua struttura che dà accesso
      Al più elevato esprimere e sentire,
      Sicché il verso si smembra o è soppresso.

      Sull’ordine primeggia la parola
      Ora obliqua ora nitida, sul metro
      Il ritmo che suona e che non vola.

      Dal decadente a scaduto. Se questa
      E’ poesia del tempo, è solo tetro
      Il futuro che a noi si manifesta.

domenica 29 settembre 2013


                             LA POESIA
                                 III

      Per chi oggi è ben comodo il poeta
      Castrato nella satira e nell’ira
      D’un Alfieri, privato della mira
      Sarcastica d’un Giusti, come creta

      Dentro molliccio, e non come profeta
      Di popolo che per furor delira,
      Non qual Carducci che arma la sua lira
      Di strali contro i vili e la pianeta?

      Ogni tempo ha il suo stile e il suo linguaggio
      In cui si esprime ciò che gli sta a cuore;
      Ma quel d’oggi è del male sempre ostaggio:

      Con guerre e stragi esso ha versato  sangue,
      Col denaro ci spinge al disonore
      E il petto del poeta ha fatto esangue

 

 

venerdì 27 settembre 2013

                            LA  POESIA
                                 II

       Compose Dante contro il papa, il clero,
      Felloni del suo tempo e fiorentini
      Molti versi per impeto divini,
      Intensi per altissimo pensiero.

      Anche il Petrarca assunse stile fiero
      Per Cola, Roma e gli itali confini.
      Furono Alfieri, Giosuè e Parini
      Maestri di virtù col verso altero.

      Ma poi la poesia del Novecento
      S’è rinchiusa all’interno del poeta
      Per sentire dell’io il rio tormento;

      Così s’è volta al lirico frammento,
      Ermetica, del verso fatta esteta,
      Ha l’ira convertito in un lamento.

 

domenica 15 settembre 2013


               LA  POESIA

                    I
     La poesia ha perso il suo fogliame
      D’alloro messa fuor dal giornalismo,
      Dal video, dai prodotti di costume
      E dal pettegolezzo e la reclame.

      In tanto consumistico ciarpame
      Che si rapprende in melma di pattume,
      Essa langue in retorico tritume
      Nascosta dentro sterile velame.

      Quasi fatta è giocattolo d’ingegno,
      Tra anafore, metafore, figure
      Varie di formalistico congegno

      E giochi marinistici e iatture
      Di prosastico dire: in tanto impegn
      Disperde il senso  delle sue scritture.

 

 

martedì 3 settembre 2013


 

                                       TREBBO POETICO
  A lato di una via raccolta e silenziosa del centro di Ravenna, si apre un piccolo spazio rettangolare, con in fondo un lato coperto da un portico di quattro colonnine , contrassegnato dalla scritta posta ad angolo: “Piazzetta del trebbo poetico”. Sotto questa scritta è riportata la seguente frase di Ungaretti del 1956: “Invenzione geniale della poesia italiana”.
   L’invenzione geniale era stata del veneto Comelli e del ravennate Walter Della Monica proprio nel 1956, nella vicina Cervia. L’invenzione consisteva in un incontro (trebbo) con ascoltatori, con il popolo, in cui appunto l’attore Comelli, sostenuto dallo scrittore Walter Della Monica, recitava le poesie dei maggiori poeti contemporanei, da Ungaretti a Quasimodo, da Montale a Saba.
   L’iniziativa ebbe successo, si affermò a Ravenna e si estese dalla Romagna a tutta l’Italia. Poi decadde. Finì nel 1960.
   I poeti storici, quelli della letteratura dei secoli passati, avevano dedicato e letto le loro poesie a principi e baroni loro protettori. La poesia era funzionale al sostegno e alla celebrazione del loro potere. Al principio del ‘900 era cambiata la struttura sociopolitica, e Trilussa, Pascarella e Di Giacomo recitavano le loro poesie nei teatri. Era il popolo a dare lustro e denaro ai poeti; e la poesia svolgeva una funzione drammaturgica alla pari delle forme teatrali vere e proprie. Poi tutto finì lì.
   Il trebbo poetico fu un tentativo di riportare la poesia al popolo e il popolo alla poesia. Non resse però al successo. Ormai il popolo aveva altro. Aveva i grandi comizi, le tribune politiche, la televisione e le altre diavolerie elettroniche. Quale funzione avrebbe ormai potuto svolgere la poesia?
   Nei tentativi di rivivificarla, i poeti hanno cercato di reinventarla, ma invece l’hanno  soffocata negli sperimentalismi. Nei loro tentativi hanno voluto anche sopprimere la strofe, la metrica e la rima, per affidarsi a una retorica esagerata ed esasperata della metafora. Così la poesia si è consunta, è diventata altra cosa da sé. Ha perso la sua natura perché ha perso la sua funzione. O forse ha perso la sua funzione perché ha perso la sua natura. Ci vuole altro per rifondarla, forse per recuperarla. Se possibile.

giovedì 8 agosto 2013

                                                              HAIKU
   Molti alberi ed arbusti ci sono pervenuti, nel tempo, dalle zone più lontane della terra e li abbiamo coltivati raccogliendone frutti meravigliosi.  Nell’epoca della globalizzazione, da ogni parte del mondo ci pervengono  profluvi di innovazioni tecnologiche, ma anche non pochi tentativi di sperimentazioni ambigue di modalità diverse, che tentano d’innestarsi nella carne più viva della nostra sensibilità  e della tradizione più profonda  della nostra cultura occidentale.
    Nella voglia matta e tumultuosa di accogliere  importazioni e novità esotiche, è accettabile anche l’innesto del giapponese haiku nel corpo vivo della nostra poesia? Coinvolgerebbe solo la forma? Ma la forma non è anche sostanza? Come è possibile, dunque, un’adozione assimilatrice di un qualcosa di così culturalmente diverso e lontano da noi?  Sarebbe possibile, solo per amor di novità o di puro sperimentalismo, assimilare ciò che non appartiene alla sensibilità espressiva più profonda del nostro mondo?
    Se ne fa il tentativo forse perché l’aiku è una forma essenziale nella sua estrema brevità, e perché non richiede ampiezza di sviluppo e impegno complesso.  Ma anche sotto questo punto di vista, noi non ne sentiamo  il bisogno, poiché abbiamo già avuto l’esperienza del frammentismo letterario, totalmente nostro, sin nelle radici più profonde.     
   Abbiamo già avuto il “M’illumino d’immenso”  di Ungaretti: che cosa ci potrebbe essere di più breve, di più apparentemente semplice, ma anche di più sintetico, di più essenziale? E l’abbiamo superato! O, forse, proprio quella brevità eccessiva e quella concisione estrema sono state il segno della progressiva perdita della funzionalità della poesia, anzi il segno dell’esaurimento della poesia stessa  nella coscienza del pragmatismo  borghese globalizzato?
   Forse la borghesia, nei suoi molteplici interessi pragmatici, non può riservare la sua attenzione ad attività che non rendono denaro, ad attività che non sempre sono facilmente manipolabili ed utilizzabili con immediatezza per i suoi fini, per cui la poesia ha perso ogni sua funzionalità, tranne quella dell’espressività solipsistica. E di solipsismo e di espedienti retorici  la poesia sta morendo. Ed allora, vista in questa prospettiva,  non c’è haiku che possa risollevarne le sorti; ci vuole ben altro che un haiku!
Per curiosità, propongo in merito questo mio haiku, pur non proprio perfetto:
                                            Ora l’aiku
                                            Si azzarda in Italia:
                                            Stramba idea!


domenica 28 luglio 2013

                                IL ROMANESCO  POCO  ROMANESCO DI TRILUSSA
   Potrebbe apparire sorprendente non che Trilussa non si sia laureato, ma che non abbia neanche compiuto un corso regolare di studi. 
   D’altronde  abbiamo esempi luminosi al riguardo: il Belli dovette interrompere i suoi  studi a livello di computista, Croce non trovò mai il tempo per una laurea, Mario Rigoni Stern – autore di Il sergente nella neve - si fermò al “terzo avviamento”, Guglielmo Marconi e T. A. Edison non seguirono corsi regolari di studi, ecc. ecc.
   Eppure, non solo  Carlo Alberto Salustri cominciò a pubblicare, sul Rugantino di Giggi Zanazzo, proprio con lo pseudonimo di Trilussa,  le poesie e con quello di Marco Pepe  gli articoli di prosa; ma lo fece giovanissimo e anche con una felicissima intuizione: utilizzare non un romanesco autentico come quello trasteverino o testaccino, ma un romanesco “annacquato” dalla lingua italiana. Non si richiamò, quindi, al romanesco plebeo del Belli né a quello popolano del Pascarella, ma si rifece direttamente al romanesco della borghesia che allora s’ingrossava e s’ingrassava a Roma con la classe impiegatizia dei ministeri e con la speculazione dell’industria edilizia che innalzava sempre nuovi ed austeri palazzi. Era un dialetto annacquato che molti parlavano a Roma, ma che tutti potevano capire facilmente  ormai in ogni parte dell’Italia unita.
   Un’intuizione, che però gli procurò risentimenti, critiche e giudizi pesanti da parte dei cultori tradizionalisti del dialetto romanesco, specialmente da parte del poeta e medico Filippo Chiappini. Dei quali però egli non tenne conto affatto. Ma pur sempre intuizione felicissima, sia per il successo che andava conseguendo  sul Rugantino, sia per il successo che conseguiva con l’edizione delle sue opere e ancor più per quello delle recite delle sue poesie, che andava effettuando nei teatri di molte città in vere e proprie tournée, anche insieme con Pascarella e con Di Giacomo.
   Quella sua intuizione felice oggi risolutamente ci pone il problema dell’uso letterario del dialetto, nel tempo in cui la mobilità sociale e la globalizzazione tecnologica dell’informazione impongono cambiamenti e rimescolamenti incisivi, se non l’attenuazione o addirittura la scomparsa delle strutture vernacolari: oggi la scrittura  della poesia  autenticamente dialettale risponde ancora a bisogni reali, oppure è ormai soltanto un puro e vacuo esercizio letterario?
    Se i poeti oggi avessero  il coraggio di distaccarsi dal frequente compiacimento della ricerca di forme dialettali ad effetto, di parole e modi autentici ma ormai superati dall’uso, per attingere a forme di linguaggio più aggiornate e più vicine all’italiano parlato, come aveva fatto appunto Trilussa, forse la poesia dialettale potrebbe essere non solo più viva, ma potrebbe anche offrire qualche contributo prezioso per l’arricchimento della nostra lingua sempre più appesantita da neologismi insulsi e dall’infarcimento di sempre più numerose parole straniere.


giovedì 11 luglio 2013

                                  LA  RIMA  IN  TRILUSSA
   Ancora una volta, ad una rilettura recente, mi è sembrato naturale riflettere  sugli  aspetti più significativi della poesia di Trilussa: quelli che vanno dalle sue deviazioni dall’ortodossia del dialetto romanesco autentico e trasteverino, come rimproveratogli dal Chiappini, al valore formale della rima  nella sua poesia.
   Qui mi voglio soffermare assai succintamente  proprio su quest’ultimo aspetto. Mi pare giusto affermare in proposito che la rima nella poetica di Trilussa non è un elemento accessorio  della forma, ma è coessenziale alla strutturazione del verso, della strofe,  della composizione nel suo afflato creativo. E neanche è un elemento sovrabbondante del verso, un qualcosa di aggiuntivo e di ornamentale,  quando è invece una nota musicalmente funzionale all’efficacia dell’unità e integrità  del discorso poetico.
   Questa funzionalità spontanea mi pare che si possa esemplificare con il suo ricorso alla rima nell’interno di molti endecasillabi, costruiti ciascuno con la somma di due versi, in modo che alle rime poste alla fine dei versi si aggiungono qua e là anche le rime nel corpo stesso del  singolo endecasillabo. Cito qui di seguito a caso:
“Forse farò ribrezzo,
  Ma so’ tutto d’un pezzo/ e ce rimango!” (endecasillabo = settenario rimato +  quaternario).
“Ma er Sorcetto, che s’era già anniscosto
  Non ve dico a che posto/ j’arispose” (endecasillabo = settenario rimato + quaternario).
 “Me sdraio su la riva e guardo l’acqua
  Che me risciacqua/ tutti li pensieri” (endecasillabo = quinario rimato + senario)
   Si potrebbe pensare che Trilussa, con queste rime nel mezzo dell’endecasillabo, abbia voluto usare un espediente retorico per l’ornamento musicale, come  rinforzo della sonorità della rima. Ma allora questa avrebbe solo il senso di un fronzolo. Non mi pare che sia così, perché  essa vi scaturisce con la naturalezza del discorso ed è espressione di pura creatività poetica.
    Infatti la rima non è che un elemento musicale connaturato col verso accentuativo. E questo lo è stato e lo è ancora per tutta la nostra poesia; sin dai tempi di Giustino Fortunato, con cui si abbandona il ritmo del verso quantitativo. E’ nella nostra contemporaneità che si cerca di eliminarla in quanto ritenuta ostacolo alla pura spontaneità dell’espressione poetica, in nome di un lirismo parossistico, che è solo un malinteso della natura della poesia.


venerdì 7 giugno 2013


            RIFARE L’UOMO
                 RECUPERARE LA FORMA     
    Nel secolo scorso, il liberalismo radicale aveva disgregato l’uomo con una competitività individualistica cheera sfociata nella grande crisi finanziaria del ’29, il fascismo l’ aveva ridotto  a una marionetta col “credere obbedire combattere”, il nazismo l’aveva trasformato in un mostro col mito della purezza della razza e i campi di sterminio, la bomba atomica l’aveva sconvolto e disciolto nel terrore della fine della vita su tutto il pianeta,
   L’arte aveva rappresentato la tragicità dell’uomo di quel periodo storico con la dissoluzione della figura  nel magma dell’astrattismo informale. La poesia aveva vissuto quella stessa tragicità  con lo sperimentalismo e la dissoluzione del verso e della strofe.
   Dopo la guerra c’erano le macerie dell’anima. Occorreva ricostruire il mondo. Occorreva rimettere insieme i pezzi dell’anima. Occorreva rimettere insieme i pezzi del mondo dell’uomo e dell’uomo stesso.
   S. Quasimodo, all’atto del ricevimento del Nobel a Stoccolma (1959) pronunciò queste parole esemplari:   «Rifare l’uomo: questo il problema capitale. Per quelli che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita, uno che sale di notte le scalette della sua torre per speculare il cosmo, diciamo che il tempo delle “speculazioni” è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno».
   Non si è esagerati se si afferma che ancora oggi molti “credono alla poesia come a un gioco letterario”. Ne è prova il  compiacimento per l’esasperato uso delle metafore, che non di rado rende persino inestricabile ed illogica l’espressione poetica.
    Si continua a salire sulla “torre per speculare il cosmo” con un ripiegamento esclusivistico e intimistico su se stessi,  in un solipsismo che preclude una visione concretamente umana del nostro mondo.
     Perché l’uomo  non può essere visto solo nella dimensione della competitività, come pretenderebbe la predominante ideologia liberalradicale.  L’uomo ha anche una sua naturale ed essenziale componente sociale; l’uomo non è solo individuo, ma è anche comunità. E la sua attività non è solo competitiva ma anche collaborativa e cooperativa dentro i molteplici rapporti della società umana. La sua visione non può essere solo quella economicistica, materialisticamente e pragmatisticamente stupida.
    Se l’artista e il poeta non ritrovano la naturale dimensione sociale dell’espressione poetica ed artistica,  non potranno recuperare né l’unità dell’uomo né l’armonia della forma. Il poeta non potrà svolgere l’impegno di rifare l’uomo, come aveva richiesto Quasimodo.
    Il problema della visione e dell’espressione dell’uomo nella sua interezza, o nella sua integralità, certamente non può essere un problema solo della poesia, del poeta, dell’arte e dell’artista; perché è un problema più generale. E’ un problema della cultura. Della società e della cultura che  hanno l’impegno di ritrovare l’uomo, la forma, l’anima dell’uomo. L’impegno di saper salvare il mondo dell’uomo dalla sua disintegrazione economicistica, dalla sua distruzione.
    Compito della poesia è ritrovare la forma. E l’anima. Al di là dal suo inaridimento materialistico, dal suo vuoto mascherato dietro gli orpelli delle figure retoriche e dell’esasperata ricerca del nuovo col suo inconcludente sperimentalismo. 
 Il solipsismo sarà sempre separatezza,  frammentazione e scomposizione. Nel poeta e tanto più nel lettore. E’ anche il lettore che condiziona nella ricerca del successo il poeta e l’artista. L’impegno del poeta, non meno che dell’artista, implicito nell’imperativo di Quasimodo, sta anche nello scuotere la poltrona dorata in cui il lettore sta quietamente adagiato.

 

 

sabato 25 maggio 2013


                                                           COME ERANO
                                     (E PERCHE’ FECERO L’ITALIA)
    Le nostre generazioni, quelle dei miei coetanei, sono state influenzate da due correnti culturali: quella religioso-vaticanesca e quella laico-idealista. Ambedue interessate a tenerci il capo fra le nuvole e a farci guardare il dito e non la luna. Con le correnti realistiche, specialmente con quella  marxista-gramsciana, ci si sono chiarite le idee, e sappiamo bene che  i fatti economici sono le cause dei mutamenti delle idee degli uomini e del cammino della storia. Perciò io penso che è bene non rifarsi ai testi di storia, quasi sempre intesi a manipolare gli eventi e le loro cause a sostegno delle istituzioni precostituite e delle classi dominanti; bisogna  affidarsi ad altri testi. Mi è capitato di riprendere fra le mani un volume del Belli. Casualmente mi è accaduto di riprendere il seguente sonetto  datato al 1 dicembre 1834.
                             LA GABBELLA DE CUNZUMO
                        Fu inzomma che ar partì da Stazzanello
                        La sora Pasqua la commare mia
                        Me diede un zanguinaccio, e Nastasia  
                        Se lo volle agguattà sotto ar guarnello.
                        Ce ne venimio bberbello bberbello,
                        Quanno proprio a l’entrà de Porta Pia,
                        Fussi caso ch’avessimo una spia,
                        Ce vedemo affermà dda un cacarello.
                         Lui, visto er bozzo, schiaffò ssotto un braccio
                         E ll’agnede a ttastà ddove capite,
                         Con la scusa de prenne er sanguinaccio.
  
                         Come finì? ffinì sta bbuggiarata
                         Che io perze tutto e ppe’ nnun fa una lite
                         Me portai via mi’ fijja sdoganata.   
      A parte il rilievo sulla preziosità del sanguinaccio in quei tempi di miseria, e al di là da ogni altra considerazione, a noi qui interessa il fatto che per entrare da Stazzano a Roma ( Stazzanello era una tenuta dei Borghese vicino Stazzano, a pochi chilometri da Roma) bisognava pagare dazio/”gabbella” (o la dogana) anche per un sanguinaccio. E’ vero che dopo l’unità d’Italia il dazio rimase sul transito della merce da un comune all’altro, ma solo per il commercio. Ancora dopo il secondo dopoguerra, chi non ricorda l’ufficio del dazio e la “bolletta di accompagno”?    Peggio, molto peggio avveniva ai tempi del Belli per la dogana e i visti per il passaporto da uno statarello all’altro dell’Italia d’allora. Basta leggersi il sonetto L’AMORE DE LI MORTI in data 1 dicembre 1835 sempre del Belli.
                                       L’AMORE DE LI MORTI 
                             A sto paese tutti li penzieri,
                             Tutte le lòro carità ccristiane
                             So’ ppe’ li morti; e appena more un cane,
                             Je se smoveno tutti li bbraghieri.
                             E ccataletti, e mmoccoli, e incenzieri,
                             E asperge, e uffizzi, e mmusiche, e ccampane, 
                             E mmesse, e ccatafarchi, e bbonemane,
                             E indurgenze, e ppitaffi, e ccimiteri!....
                             E intanto pe’ li vivi, poveretti!,
                             Gabbelle, ghijjottine, passaporti,
                             Mano-reggie, galerre e ccavalletti.
                             E li vivi poi-poi, bboni o ccattivi                         
                             So’ cquarche ccosa mejjo de li morti:
                             Nun fuss’ antro pe’ cquesto che sso’ vvivi.
   Questo sonetto fu composto dal Belli  in occasione di un suo viaggio a Milano, passando per Firenze e Genova e poi, al ritorno, per Bologna, Rimini, Pesaro, ecc.  Fra tasse e mance (dette allora “bonamano”) queste furono le spese e perdite di tempo per i visti sul passaporto, che riporto in estrema sintesi: a Roma 100 baiocchi; uno scudo e 25 baiocchi a Firenze, in cui dovette chiedere autorizzazioni per il soggiorno al ministro sardo, al console pontificio e al ministro austriaco; a Genova fu costretto a un andirivieni (fra polizia, console pontificio, ministro degli esteri) di 5/6 giorni, pagando tasse e bonamano a ciascuno somme per complessivi scudi 2. Si tenga conto che il Belli poteva allora ben pranzare con circa 25 baiocchi: a conti fatti, quei visti, comprese le mance, gli vennero a costare un equivalente di 16 pranzi.
   In considerazione di questa esosità, che oggi farebbe impallidire Equitalia,  e dei relativi intralci e garbugli, l’opinione popolare, come al solito, è subito pronta ad attribuire la colpa alla burocrazia; infatti i tromboni e i tirapiedi al servizio delle classi dirigenti (politiche ed economiche) cercano di attirare sempre l’attenzione sul dito e non sulla luna. Infatti è la politica, il potere, che crea, con norme e regolamenti, intralci, garbugli e impone tasse; gli impiegati (la burocrazia)  eseguono soltanto gli ordini e fanno semplicemente il lavoro per cui sono pagati. 
   E ancora una volta mi domando: Perché oggi la poesia ha solo la capacità di piangersi addosso, di ricercare le metafore più astruse, di giocherellare con le parole e non ha più la funzione di muovere e commuovere l’animo di fronte alle ingiustizie del nostro momento storico?

 

martedì 21 maggio 2013

COME ERANO


Il desiderio espresso da papa Francesco di una chiesa povera e per i poveri mi ha richiamato in mente questo sonetto del Belli, il sesto di ER COLLERA MORIBUS, uno dei suoi più spietatamente mordaci, scritto in occasione del colera a Roma nel 1835.

Eh! A che serveno mai tanti conforti?
E’ ita pe’ noantri disgrazziati.
Sapete chi hanno fatti deputati
Si ir collèra vierà? Primoli e Torti.
 
Questi tra loro se so’ già accordati
Che la povera gente se straporti
Ar lazzaretto, indov’escono morti
Tutti quelli che c’entreno ammalati.

E li ricchi staranno in ne l’interno
De casa loro, curati e assistiti
Da un medico e un piantone der Governo.

Oh annate a crede ch’er Vangelo poi
Abbi torto, dicenno all’arricchiti:
Vè vobbisis, cioè beati voi!

                       (16 agosto 1835)

    In sostanza, dice il Belli, fu deciso che gli ammalati appartenenti alla gente comune fossero obbligatoriamente trasportati in isolamento nel lazzaretto e i nobili e i ricchi, invece, fossero curati nelle loro case dai loro medici. Sicché il Belli fa dire sarcasticamente al popolano che parla in questo sonetto: Poi andate a credere al Vangelo che dice “guai ai ricchi!”!
    Allora il Belli, i romani e il Papa erano nel 1835! Era la Roma dei papi, la Roma dei cristiani, dei cattolici. Era il tempo in cui comandava a Roma e nello Stato della Chiesa papa Cappellari, Gregorio XVI.
    E oggi, oggi dopo che con la Costituzione repubblicana abbiamo conquistato il diritto alla salute ed è stato istituito il Servizio Sanitario Nazionale? Oggi il popolino va nei corridoi delle corsie ospedaliere sovraffollate, invece i ricchi se ne vanno nelle cliniche private, spesso sovvenzionate proprio dal SSN! E’ come nel 1835? No! Quasi. Non per colpa dei ricchi, ma per colpa di quelli che prendono i voti dai poveri e tradiscono i poveri; e per colpa dei poveri che votano perché i ricchi siano ricchi.
    Forse c’è un barlume di speranza con questo Papa: non perché prenda provvedimenti, ma perché potrà dare esempi! Sul piano dell’umanità, non su quello dei diritti. Per senso di carità e misericordia, non per obblighi di legge.
    Infine mi chiedo: E’ possibile oggi una poesia così significativamente sociale, civile, umana, com ‘è questa del Belli? Perché la poesia odierna deve essere così solipsistica, così avulsa dalla drammaticità della vita?