mercoledì 26 settembre 2018


Pubblico qui di seguito questa mia “lettera” tratta
dal mio LETTERE BIGLIETTI E BIGLIETTINI
autoeditito con YOUCANPRINT

                A   M.  Z.                                                                       

Tu gentile mi chiedi perché i miei versi non pubblico,
Giacché – tu dici - sono limpidi ed hanno
Profondo senso poetico.
                  
Sarei un ipocrita se ti dicessi che mi muove pietà
Per le vetrici argentee, per gli agili pioppi, che il cielo
Sereno svariano d’umido verde nei giorni infuocati
D’estate e di caldi colori
In quelli che illanguidisce autunno.
Infatti per così poco
Bisogno non avrei di camion di carta,
Come Moravia per le tante sue opere o peggio di treni
Che Montanelli consuma per la penna mai quieta.
Pietà degli alberi non hanno i grandi editori,
Quando i libri pubblicano che non valgono un fico,
Purché scritti siano da questo o quel giornalista,
Da un attore o gran cuoco o da un divo qualsiasi,
Da uno già noto comunque;
Pietà non ne hanno  i poeti
Quando elencano parole in schemi d’epigrafi
E dalle loro frenesie
Lambiccano inaccessibili metafore,
Senza né punti né virgole
E per poesia il tutto gabellano.

Più ancora m’indugia pudore
Di debole e tremula voce
Sommersa fra gli strepiti di mille
E mille  sedicenti poeti
Che dalle paginette gridano parole ubriache e le loro                      
Anime  isteriche in  versi insaponano stolidi; tra tanto
Gracidare confuso d’opuscoli,
Chi mi trarrebbe più in alto
Sicché udire si possa
Da dieci lettori l’ingenuo mio canto?
Non certo verrebbero i critici ad aprirmi le porte
Degli editori, poiché se costoro
Sono  troppo impegnati
Nell’industria dei nomi affermati comunque,
Quelli sono intesi a fingere d’avere trovato qualcosa
Dentro l’altrui lavoro che essi invece vi han messo.
Né io intendo darmi per stupido prurito del mio nome
Ai viscidi tentacoli protesi
Da un di quei che stampano
Per denaro sonante libercoli a gettito continuo
E intorno al collo d’illusi poeti stringono grinfie
Simile a quelle di notturni e astuti rapaci.

Quantunque onestamente
Stampando i miei versi a mie spese
Ne donassi le copie agli amici e le spedissi a quelli
Che nelle riviste contano e imbastiscono chiacchiere
Argute sulle lettere, chi ne farebbe conto?
Chi vedendole appena
Non le butterebbe fra le inutili carte          
Che nelle borse rigonfie ci porta il postino
Per la fiera di ciarle che infinocchiano  folle?
Si ciancia a bella posta di libertà dell’uomo
E delle idee, ma è solo libertà di mercato
In cui solo  chi tiene denaro può avere parola,
Solo chi ha denaro
Stringe nel pugno il potere dell’uomo        .
        
Ma io denaro non ho,
Né a lotto gioco o vinco scommesse                      
E non nutro speranze di fortune improvvise;
Ho solo desiderio di dire e di farmi ascoltare
Dalle pagine scritte. Ma essi ne han voglia?
Ma poi perché leggere dovrebbero
Un mio misero libretto
Coi miei poveri versi che a furia di lima rilucono
Appena qua e là fra ruvidi suoni
Ed aspri corrucci che da dentro mi scuotono?
Quanto a me certamente sai
Che io scrivo per me stesso,
Per dire quel che m’urge di quel che intorno accade,
Per lo sfogo di rabbia che ribolle a me ribelle dentro
Verso un mondo sconnesso che disfido,
Che guardo e nel guardarlo esplodo e allora scrivo
E nei miei versi io non veduto di me stesso rido.



mercoledì 12 settembre 2018


                           SCUOLA  A  SOQQUADRO

    Ricomincia un nuovo anno scolastico. E la verbosità giornalistica e la superficialità della cosiddetta opinione pubblica non pongono alcuna attenzione al soqquadro  della funzione primaria della scuola.
   La loro attenzione  è rivolta marginalmente alla stabilità e alla sicurezza degli edifici e molto di più al funzionamento della scuola: giorni ed orari di apertura e chiusura, giorni di vacanza, la favola perdurante dei quattro mesi di ferie per gli insegnanti e quella più risibile del loro scarso orario giornaliero di lavoro, al solito, Dio sa con quale logica,  messo a confronto con quello degli operai e dei dipendenti privati.
   Ma non vedono, la verbosità dei giornalisti e la superficialità della cosiddetta opinione pubblica, la messa a soqquadro della scuola nella sua funzione primaria ed essenziale dell’essere davvero scuola.  Non vedono che la scuola  cade a pezzi, non nei muri delle aule, negli arredi e nelle varie suppellettili, ma nella sua essenzialità, nella sua opera educativa.
   Perché l’una e l’altra vedono la scuola nelle aule, nell’edificio. Come per una fabbrica. O come per un ufficio qualsiasi. E vedono gli insegnanti non come educatori, ma come impiegati di qualsiasi genere, come semplici prestatori d’opera. Confondono l’edificio scolastico con la scuola! E non sono pochi quelli che lo fanno ad arte, per tornaconto delle loro logiche fasulle. Perché sanno bene che la funzione della scuola è quella educativa. Ma non lo dicono!
    Fanno finta di non sapere che noi  insegnanti nel dopoguerra facemmo scuola nelle stalle ripulite; e che prima ancora della guerra non furono pochi insegnanti a fare scuola itinerante o  all’aperto. Che cosa c’entrano con la scuola gli edifici e le aule, oltre alla comodità e alla sicurezza che giustamente possono offrire?
    La scuola vera sta nella sua funzione: nella funzione educativa efficiente ed efficace degli insegnanti: sta negli insegnanti. La scuola non è fatta dalle aule, ma è fatta dagli insegnanti, se liberi nella loro azione educativa (la libertà dell’insegnamento ora l’anno seppellita sotto la catasta delle normative e direttive burocratiche).
   E quella che oggi si colpisce e si mette a soqquadro è proprio la scuola educativa degli insegnanti! Si guarda alla precarietà degli edifici ma non si guarda alla demolizione continua e pervicace dell’autorità degli educatori. Perché essa è in qualche modo ostacolo alle loro strategie, giacché in queste già si notano propedeutiche prospettive per una avveniristica sostituzione degli insegnanti con la robotica. Quindi  prospettive di nuovi e perniciosi autoritarismi di coloro che in futuro saranno detentori del potere.
    Non è la scuola dell’insegnante educatore che si vuole. Ora si vuole invece un’organizzazione scolastica diretta e manovrata verticisticamente,  che esprima una sua propria funzione e indirizzi l’azione didattica dell’insegnante apparentemente ancora libera.
   Infatti l’insegnante è sempre più condizionato dall’organizzazione scolastica, ridotto ad esecutore di progetti e programmi e sempre più supervigilato dai superiori, dalle famiglie e dagli stessi allievi, che più o meno direttamente ne destabilizzano e ne erodono l’autorità educativa.
   Ultimamente, senza pudore, hanno chiamato questa scuola “la Buona Scuola”!  A una scuola che soppresse nel 1963 la scuola dell’avviamento al lavoro si è sostituita una “Buona Scuola” che mira non più precipuamente all’educazione, ma alla formazione dell’allievo per il suo inserimento nel mondo del lavoro! Cioè alla sua immissione  nel mercato del lavoro, perché vengano favorite le  classi imprenditoriale e finanziaria  nelle loro condizioni concorrenziali dentro l’attuale sistema economico. Una scuola dunque che mira non tanto più all’educazione dell’uomo, ma alla formazione del lavoratore, della cui personalità si valorizza soprattutto la dimensione di prestatore d’opera nel sistema economico.
   Cioè a quella scuola  si sostituisce una scuola che si specializza e si dirama  in non so quanti indirizzi, in non so quante sperimentazioni e in quanti pseudoprogetti per rispondere alle richieste del mercato, che sperimenta e perde le sue energie in mille iniziative psudodidattiche e affatto educative, si disperde in gite che sottraggono il tempo stabilito per legge alle lezioni in risposta a richiami economico-turistici ben esteriori ai compiti istituzionali della scuola.
   Questa è la scuola odierna, tesa a  rispondere agli interessi del mercato del lavoro:  e il colmo è  che il mercato del lavoro di oggi non sarà affatto il mercato del lavoro di domani. Cioè del tempo in cui vi si dovranno inserire gli allievi di oggi!
  Altro che scuola! Altro che “Buona Scuola”!  E’ la scuola della miseria! Anzi è la miseria della scuola!

   


sabato 18 agosto 2018


Riporto qui di seguito un brano tratto dal mio libro POESIA E FORMA autoedito con Youcanprint.              
  RECUPERARE LA FORMA, RIFARE L’UOMO.     
    Nel secolo scorso, il liberalismo radicale aveva disgregato l’uomo con una competitività individualistica che era sfociata nella grande crisi finanziaria del ’29, il fascismo l’ aveva ridotto  a una marionetta col “credere obbedire combattere”, il nazismo l’aveva trasformato in un mostro col mito della purezza della razza e i campi di sterminio, la bomba atomica l’aveva sconvolto e disciolto nel terrore della fine della vita su tutto il pianeta,
   L’arte aveva rappresentato la tragicità dell’uomo di quel periodo storico con la dissoluzione della figura  nel magma dell’astrattismo informale. La poesia aveva vissuto quella stessa tragicità  con lo sperimentalismo e la dissoluzione del verso e della strofe.
   Dopo la guerra c’erano le macerie dell’anima. Occorreva ricostruire il mondo. Occorreva rimettere insieme i pezzi dell’anima. Occorreva rimettere insieme i pezzi del mondo dell’uomo e dell’uomo stesso.
   S. Quasimodo, all’atto del ricevimento del Nobel a Stoccolma (1959) pronunciò queste parole esemplari:   «Rifare l’uomo: questo il problema capitale. Per quelli che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita, uno che sale di notte le scalette della sua torre per speculare il cosmo, diciamo che il tempo delle “speculazioni” è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno».
   Non si è esagerati se si afferma che ancora oggi molti “credono alla poesia come a un gioco letterario”. Ne è prova il  compiacimento per l’esasperato uso delle metafore, che non di rado rende persino inestricabile ed illogica l’espressione poetica.
    Si continua a salire sulla “torre per speculare il cosmo” con un ripiegamento esclusivistico e intimistico su se stessi. D’altra parte l’uomo  non può essere visto solo nella dimensione della competitività, come pretenderebbe la predominante ideologia liberal-radicale. L’uomo ha anche una sua naturale ed essenziale componente sociale; l’uomo non è solo individuo, ma è anche comunità. E la sua attività non è solo competitiva ma anche collaborativa e cooperativa dentro i molteplici rapporti della società umana. La sua visione non può essere solo quella competitiva ed economicistica. materialisticamente  e pragmatisticamente stupida.
    Se l’artista e il poeta non ritrovano la naturale dimensione sociale dell’espressione poetica ed artistica,  non potranno recuperare né l’unità dell’uomo né l’armonia della forma. Il poeta non potrà svolgere l’impegno di rifare l’uomo, come aveva richiesto Quasimodo.
    Il problema della visione e dell’espressione dell’uomo nella sua interezza, o nella sua integralità, certamente non può essere un problema solo della poesia, del poeta, dell’arte e dell’artista; perché è un problema più generale. E’ un problema della cultura. Della società e della cultura che  hanno l’impegno di ritrovare l’uomo, la forma, l’anima dell’uomo. L’impegno di saper salvare il mondo dell’uomo dalla sua disintegrazione economicistica, dalla sua distruzione.
    Compito della poesia è ritrovare la forma. E l’anima. Al di là dal suo inaridimento materialistico, dal suo vuoto mascherato dietro gli orpelli delle figure retoriche e dell’esasperata ricerca del nuovo col suo inconcludente sperimentalismo. 
    Il solipsismo sarà sempre separatezza,  frammentazione e scomposizione. Nel poeta e tanto più nel lettore. E’ anche il lettore che condiziona nella ricerca del successo il poeta e l’artista. L’impegno del poeta, non meno che dell’artista, implicito nell’imperativo di Quasimodo, sta anche nello scuotere la poltrona dorata in cui il lettore sta quietamente adagiato.

venerdì 29 giugno 2018


Riporto qui di seguito un brano del mio libro POESIA E FORMA autoedito con YOUCANPRINTin cartaceo e in ebook.

     TRE SONETTI DI TRE POETI DEL PASSATO

   Un’occasionale rilettura del sonetto del napoletano Cavalier Marino sulla vita dell’uomo mi ha suscitato richiami per altri due sonetti sullo stesso argomento, che pure avevo letto tempo addietro, uno del reatino Loreto Mattei e l’altro del romano
G.G. Belli.
   Il Marino compose in lingua il sonetto “La vita dell’uomo” con una struttura poetica senza fronzoli, essenziale e compatta. Proprio il contrario della sua poetica ricchissima di costruzioni retoriche, tanto che il suo poema “Adone” ha una stesura  più lunga di quella dell’Orlando Furioso, ridondante, pur con una trama lineare e di molto più povera.
   Mattei compose in dialetto reatino “La vita dell’ome” alcuni decenni dopo la morte del Marino, quindi nello stesso secolo diciassettesimo.
   Evidentemente era stato influenzato dal sonetto del poeta napoletano a tal punto da volerne ripercorrere moti e modi, vibrazioni interiori e percorsi tematici nel suo linguaggio dialettale. Ed avvertiva che proprio la crudezza e l’icasticità del dialetto, a confronto della lingua usata dal Marino, gli avrebbero reso possibile l’espressione di una sua personale originalità poetica, insomma la manifestazione di una sua propria
originale creatività e non la pedante e passiva imitazione.
   Lo stesso fece il Belli due secoli dopo col suo sonetto in dialetto romanesco “La vita dell’Omo”, forse con lo stesso intendimento del Mattei, e  raggiungendo risultati di efficacia non meno sorprendenti di quelli
conseguiti dal Mattei.
  Insomma per i tre poeti, la poesia è stata strumento non di riflessione filosofica sull’uomo, ma di espressione di un proprio modo di sentire e di cogliere lo scorrere del tempo in rapporto alla caducità e alla crudezza della vita dell’uomo. Per essi la poesia ha avuto una funzione espressiva davvero efficace.  
   Queste considerazioni mi hanno sollecitato al confronto tra  il nostro vivere  presente e il modo di vivere del passato, tra il mondo dei poeti di ieri e il mondo dei poeti del nostro tempo. I primi riuniti in vivacissime accademie (quella del Tizzone per il Mattei e quella Tiberina per il Belli) sotto la protezione di nobili e prelati in un mondo ad economia di rendita; i secondi, cioè i poeti contemporanei, sono invece affannati in solitudine ad annaspare con artifici retorici in un mondo  condizionato  da un’economia d’impresa, che tutto distrugge e fagocita nel rapporto tra prodotto e consumo, e che misura ogni valore sul metro del denaro.
   Oggi, infatti, non si può che constatare la dissipazione della funzione poetica, soprattutto in relazione alle innovazioni radicali sul piano delle nuove tecnologie. Certamente siamo indotti a domandarci se con la rivoluzione culturale che si va realizzando con le tecnologie informatiche e i nuovi mezzi di scrittura sarà ancora possibile una poesia così come si è andata strutturando nel passato.

         
   Cavalier Marino (1569/1625)
        LA VITA DELL’UOMO

Apre l’uomo a fatica, allor che nasce
In questa vita di miserie piena,
Pria ch’al sol gli occhi al pianto e, nato a pena,
Va prigionier tra le tenaci fasce.

Fanciullo, poi che non più latte il pasce,
Sotto rigida sferza i giorni mena;
Indi, in età più ferma e più serena,
Tra Fortuna e Amor more e rinasce.

Quante poscia sostien, tristo e mendico,
Fatiche e morti, infin che curvo e lasso
Appoggia a debil legno il fianco antico?

Chiude alfin le sue spoglie angusto sasso,
Ratto così che sospirando io dico:
Dalla cuna alla tomba è un breve passo!

       Loreto Mattei (1622/1705)
LA VITA DELL’OME

Appena l’ome è scito dalla coccia,
Piagne li guai séi, strilla e scannaccia;
Tra fascia e fasciaturi s’appopoccia
E tutti, co’ reerenzia, li scacaccia.

Quanno la mamma più no lu sculaccia,
Lu mastru lu reatta e lu scococcia;
Quanno è ranne se ‘nciafra ‘nqua ciafraccia
E co’ quaeunu lu capu se scoccia.

Tantu attraina po’ tantu la ‘mpiccia,
Scinente che appojatu a ‘na cannuccia
‘Nciancicà non po’ più se non paniccia.

Co’ tre stirate ‘e cianchi la straspiccia.
Lo nasce e lo morì, icea Quagliuccia,
Vau accacchiati coe la sargiccia.



G.G. Belli    1791/1863
LA VITA DELL’OMO

Nove mesi a la puzza: poi in fasciola
tra sbaciucchi, lattime e llagrimoni:
poi p’er laccio, in ner crino, e in vesticciola,
cor torcolo e l’imbraghe pe’ ccarzoni.

Poi comincia er tormento de la scola,
l’abbeccè, le frustate, li ggeloni,
la rosalía, la cacca a la ssediola,
e un po’ de scarlattina e vormijoni.

Poi viè ll’arte, er diggiuno, la fatica,
la piggione, le carcere, er governo,
lo spedale, li debbiti, la fica,

er zol d’istate, la neve d’inverno...
E per urtimo, Iddio ce bbenedica,
viè la Morte, e finissce co’ l’inferno.











domenica 17 giugno 2018


Riporto qui di seguito un brano del mio libro POESIA E FORMAautoedito con YOUCANPRINTin cartaceo e in ebook.
                        FUNZIONE DELLA POESIA 
   Nei miei recenti post, avevo scritto che in passato la poesia  aveva svolto non poche volte una funzione di sostegno al potere, come nella corte augustea e nelle corti rinascimentali. Fino a non molto tempo fa, in effetti la poesia ancora svolgeva una funzione viva ed operativa all’interno del sistema sociale, anche come strumento di produzione del consenso. 
   A questo proposito, proprio giorni fa, Franco Cordero scriveva su La Repubblica del 26 aprile 2012 con riferimento alla guerra di Libia: “…. dal Corriere della Sera D’Annunzio canta le Gesta d’Oltremare in terzine dantesche, dieci canzoni, 8 ottobre 1911- 14 gennaio 1912. Albertini gliele paga 1250 lire l’una ( insomma D’Annunzio incassa 12500 lire di quei tempi – n.d.s.-) Albertini ci tira un milione di copie del suo Corriere della Sera”.      
  Franco Cordero aggiunge, sempre con riferimento alla guerra di Libia: “Giovanni Pascoli tiene un discorso che ai miei tempi figurava nelle antologie, “La grande proletaria s’è mossa”. Figuriamoci: il pacifista e socialista Pascoli che diventa sostenitore di una guerra coloniale!”
   Oggi è cambiata profondamente la struttura della nostra società ad opera soprattutto della tecnica: ne risultano modificati i nostri modi di pensare e di vivere, quindi i nostri modi operativi, i nostri personali atteggiamenti.
   La funzione della poesia ora è davvero ridotta alla sola sfera personale e intimistica. E’ così marginale che  il potere l’ha utilizzata in questi ultimi tempi come strumento consolatorio per il cosiddetto  tempo libero; tanto che prima dell’attuale crisi finanziaria non c’era ente, dopolavoro, associazione che non bandisse il suo bravo concorso poetico, premiando i concorrenti come ad un concorso del gioco delle bocce o del gioco a briscola. In fondo a questa dimensione sociale è stata ridotta la funzione della poesia, soprattutto da una politica quanto mai ottusa e gretta.
    Bisogna però chiedersi se davvero la poesia può essere emarginata in modo così mortificante. Certamente lo può essere col suo consenso, cioè se i poeti accettano di limitare la loro funzione a una poetica dell’intimismo, al ripiegamento della loro personalità su se stessa, se davvero rinunciano ad una loro funzione sociale, di partecipazione alla costruzione della parte più profonda della nuova umanità. Non dovrebbero; secondo anche una dimensione civile, oltre che culturale.
    Di fronte ad una realtà così alienante e sempre più tecnicizzata come l’attuale, i poeti dovrebbero costituire la forza più reattiva per sommuovere il mondo affettivo e relazionale dell’uomo, certamente non per contrapporlo a quello della tecnica, ma per affrancarne la dimensione spirituale e rafforzare la libertà dell’uomo a fronte di un potere finanziario che minaccia di diminuirne le possibilità di sviluppo in un futuro sempre più tenebroso.



sabato 19 maggio 2018


Pubblico qui di seguito questa poesia tratta dal mio
PAGINE DISSEPOLTE  autoedito da Youcanprint.

PER I SOLDATI CADUTI NELLO SCONTRO AVVENUTO 
IN LOCALITA’ PARADISO DI CASTIONS DI STRADA
UN’ORA DOPO L’ARMISTIZIO DEL 4 NOVEMBRE 1918.
                   .
  Mio padre vi vide che il sangue
Era appena rappreso sull’erba
E di voi ultimi sfortunati
Memorando mi disse
Accanto al fuoco una sera d’inverno.

Giaceva un di voi riverso sul ciglio
Di strada, la lancia discosta
E il cavallo disteso nel fango;
Erano altri sull’erba sconvolta
Con gli occhi fissi agli ultimi
Bagliori di fuoco affogati
Nei vapori del denso tramonto,
E un austriaco immobile
Era più freddo e più rigido
Della mitraglia sua inutile
Che ancora stringeva con mani di pietra.

   Mio padre mi disse di voi. E negli occhi
Aveva lo Smerl e Caporetto,
San Biagio di Callalta
Il fango e l’acque cruenti del Piave.
E aveva negli occhi le immagini
Di cento e mille compagni sepolti;
E aveva le immagini vostre,
Di voi ultimi morti nell’ultimo scontro,
Dopo la vittoria degli uni
E la resa degli altri.
Mi disse mio padre di voi
Morti in un luogo a voi ignoto,
Dal nome bellissimo,
E che Paradiso si chiama.
.
  Ed ecco io ora fortuito trovarmi (1)
A questo incrocio di strade,
A leggere attonito
I vostri gelidi nomi sul marmo
Mentre in me riascolto mio padre
Che mi parla di voi.
  
  Questa piatta campagna ove fumigano
Giovani pioppi la sera
Paradiso la chiamano
Con figura poetica, ma inferno per voi fu,
Fu inferno di morte per voi.

Io davanti ai vostri nomi
Silente ristò,vi commemoro
Nella mia ara dell’anima,
Voi ostie dell’odio,
Dell’umano primordiale rancore,
Voi chiamati e sospinti
Nei vostri giorni fiorenti d’amore,
Ad un gioco mortale e terribile,
Che il Potere atroce chiude e rinnova
Insaziabile nel tempo dell’uomo.

  Ora qui i vostri gelidi nomi
Su questo marmo ammoniscono i posteri
Nei giorni sereni di pace.
Ma chi vi legge qui addenta panini,
Poi sulle macchine corre a Lignano,
Sul mare dei sensi che turbinano
Nel fondo dell’inconscio degli animi.
Ed il Potere prosegue maligno
A tessere la sua tela di ragno,
Ad ordire e tramare il suo gioco
Che atroce si chiude e rinnova
Il tempo del sangue e del lutto,
Dell’orrore dell’uomo.
  O più volte inutilmente voi morti!

 (1)  Paradiso di Castions di Strada (UD), Novembre 1981
       


















venerdì 6 aprile 2018


   Riporto qui di seguito una poesia tratta dal
mio  SCORCI edita  con l'editore Vitali.    

                   A  FORMIA 

          Se gli occhi non avessi io aperti
         All’azzurro, là dove piacerebbe
         A me morire per sentirmi vivo
         Ancora nelle linfe delle palme
         Perlacee degli ulivi e nel candore
         Dei ciliegi fioriti allo zefiro,
         O Formia, qui mi sarebbe piaciuto
         Nascere e vivere, in questa equorea
         Tua chiarità, che si distende e approda
         Con le docili onde  alle radici
         Dei tuoi monti, alti per scogli celesti.

         Come un golfo si schiude la mia terra
         E lontana si stende come un mare
         Nell’aereo ondeggiare  di dolcissime
         Colline, che al Tevere sinuoso
         Ed a Roma digradano azzurrine:
         Declivi verdi che per spazi ceruli
         Senso di pace danno e d’infinito.
         Di là memorie di  conchiglie fossili,
Di murmuri lontani  d’onde quiete
         In echi primigeni del mio inconscio
         Forse a te mi sospingono e a richiami
           D’ere remote; e in te mi trovo come
         Maternamente accolto in dolce grembo;
         E in te, risalendo il tempo quale
         Silente corso d’un antico fiume,
         M’abbevero insaziabile di luce.                              
                                                                                   
            O Formia divina, approdo di premevi
         Mitici naviganti, ai quiriti
         D’ozi fecondo e celebre soggiorno!
         A te qui corro ogni anno per le ferie
            Che lo Stato concede e la mia povera
         Tasca permette a raddolcirmi il cuore.
         E qui, su questo golfo, ove paranze
         Sembrano navigar come trireme
         Ai lidi d’un tempo sconfinato,
         Vivo un breve spazio del mio esistere
         Dentro una quieta e provvida natura,
         Che nella sua bellezza ancor dissolve
         Nuove brutture delle cose umane.

         O Formia, se non avessi i miei occhi
         Aperti sulle verdi  mie colline,
         Qui nell’azzurra tua terra di quiete
         Mi sarebbe piaciuto aver la vita
         E respirare il cielo tuo di mare.         
                  

sabato 24 marzo 2018


Pubblico qui di seguito alcuni stornelli tratti
dal mio VERSI ORTICANTI autoedito con
Youcanprint

Fioretto bello,
C’è il sofisma, la logica, il cavillo,
Per imbrogliare al popolo il cervello

Fiore de pianta,
Il cobra con lo zufolo s’affronta,
Con le parole il popolo s’incanta.

Fiore de cavolo,
Dicono che lo fanno per il popolo,
Ma per piacere, vadano al diavolo!

Fiore de lino,
Se parla mo de popolo sovrano,
E ce lo fanno credere persino!

Fior de cotogna,
Il popolo ce soffre e ce mugugna,
Se la canta e se gratta poi la rogna

sabato 17 marzo 2018


Pubblico qui di seguito questa poesia tratta dal mio
PAGINE DISSEPOLTE auto edito da Youcanprint.

LA BEFANA E BABBO NATALE
 (Composi questa mia poesia ironica nel 1977, quando negli atenei ancora si discuteva del sei politico, da tre anni erano in vigore i Decreti Delegati Malfatti, fu soppressa la festa dell’Epifania, ed io insegnavo nella scuola elementare)

Soffia il vento nella notte:
Dentro il mondo scuro scuro
Chi si arrampica sul muro?
Chi cammina quatto quatto
Sulle gambe come un gatto
Sulle tegole del tetto?
                  Soffia il vento nella notte!

Forse, forse è la Befana,
La Befana della nonna,
Che va in cerca del camino
Per portare ad un bambino
I suoi doni nelle calze,
Nelle calze a buchi e a toppe?
                 C’è la luna nella notte!

Sulla scopa va la Vecchia,
Va la Vecchia brutta e nera;
Cerca, cerca sopra il tetto,
Ma non trova il caminetto
Per discendere al lettino,
Dove un bimbo sogna e dorme.
                Stan le stelle nella notte!

Brutta strega, la Befana
Sa i cattivi e quelli buoni,
Riconosce quelli attenti,
Quelli bravi nella scuola
Ed a questi porta i doni,
Ma a quegli altri, ai più cattivi
Porta cenere e carboni
Nelle calze a buchi e a toppe.
                    Punge il gelo nella notte!

Brutta strega, vecchia, antica,
Tutta rughe, senza denti,
Tutta occhi sempre intenti
A guardare chi fa bene,
A guardare chi fa male,
Per portare al più birbone
Solo cenere e carbone
Nelle calze vecchie e rotte!
                  Gufa il gufo nella notte!   

Fuori! Fuori la Befana,
La vecchiaccia d’altri tempi!
Dalle case sia bandita!
Non vogliamo ch’essa giudichi
Chi fa bene e chi fa male,
Non vogliamo che il più buono
Sia distinto dal furfante!
                  Va la volpe nella notte.

Siamo uguali e non vogliamo
Che al pigrone, che al cattivo
Venga detto che sia tale,
E vogliamo che chi studia
E sui libri sgobba assai
Al somaro resti uguale.
                Tutto tace nella notte.

Fuori! Fuori! La Befana
Sia beffata, sbeffeggiata,
Sia derisa, sbertucciata,
Sia schernita, sia bandita,
Maltrattata, sia punita,
Sia punita con le botte,
Sia cacciata in una tana
Con la testa e le ossa rotte!
              Soffia il vento nella notte.

Venga qui Babbo Natale,
Che col candido barbone
Assomiglia ad un caprone!
Sarà sempre applaudito,
Perché vecchio e rimbambito
Non distingue il più poltrone,
Non distingue il buono a nulla,
Porta i doni a tutti quanti,
Sia ai buoni che ai birbanti!
               Venga qui col suo mantello,
               Suoni, suoni il campanello.  

Venga, venga, e qui ci vuoti
Tutto intero il suo gran sacco:
Tu ti prendi quel cartoccio,
Io mi prendo quel gran pacco,
Lui si prende quel fantoccio,
Quel si prende il suo trenino.
Con lui sì che siamo amici,
Siamo uguali e anche felici!
                Venga presto dal monello,
                 Suoni, suoni il campanello!

Che c’importa, che c’importa
Se ci credono marmocchi
Tutti furbi e intelligenti?
Siamo ormai tutti Pinocchi
Nel paese dei balocchi,
Senza voti né qualifica,
Con soltanto la verifica
Nel rapporto con noi stessi:
Sia piccini che più grossi
Siamo ormai tutti promossi!
                 Suoni, suoni il campanello,
                 Ché gli apra quel monello!

Venga ognor Babbo Natale
Con quel candido barbone,
Col faccione gioviale,
Con l’aspetto di caprone!
Viva! Viva! Ci voleva
Un signore cosiffatto,
Un signore mentecatto,
Un signore che non vede
Ora il mondo com’è fatto!
                Venga presto dal monello,
                Suoni, suoni il campanello!

Venga qui Babbo Natale,
Qui nel mondo degli uguali,
Coi suoi doni si cancelli
Ogni segno di bravura,
Che il più sveglio lo gratifica
E il pigro lo mortifica:
Siamo tutti a una misura
Per rispetto della logica,
A dispetto del buonsenso
Che ci dona la natura!
               Venga presto dal cancello,
               Suoni, suoni il campanello!

Ma via vada questo falso
Giramondo di babbeo,
Che confonde col Natale
Lo scherzoso Carnevale!
Lasci il mondo tale e quale
Con i doni per i ricchi
E la fame dentro agli occhi
Dei più poveri; e non tocchi
Nelle tasche di chi ha
Qualche cosa, in carità!
             Suoni pure il campanello,
              Ma via vada quel cialtrone
              Col suo stupido cappello!

Vada, vada e a tutti dica:
Viva, viva i marmocchini!
Viva, viva i più cretini!
Viva, viva il fannullone
E chi vive e non lavora,
E chi in testa non ha idee
O le manda alla malora!
Dica, dica: Noi fondiamo
Una nuova società,
Che ha il suo fine nel progresso
Della nostra asinità!
                 Entri pure quel cialtrone,
                 Avrà calci nel sedere
                 E legnate sul groppone!