martedì 21 luglio 2015

                      ANCORA SU ARTE E POESIA OGGI

   Il mondo attuale si muove tra dinamismo creativo della tecnica e commisurazione di ogni sua dimensione col denaro mediante il mercato.  Ormai, potremmo dire, tutto è tecnica e tutto è mercato. Poi però il denaro cambia ogni cosa in merce. Anche l’uomo e la sua anima.
   Il valore delle nostre azioni ormai sta nel denaro che esse possono muovere ed accumulare. Se non muovono denaro sono considerate indifferenti. E’ la cultura del nostro tempo.  Conseguentemente ciò avviene anche nel campo della produzione estetica, nel campo della creatività delle arti e della poesia.
   La poesia però oggi non ha mercato, non può muovere denaro che nell’esborso degli stessi poeti che vogliono pubblicare la loro opera. L’accumulo di denaro per i poeti sta solo nella partita delle uscite e non delle entrate. Infatti essi sono scivolati nell’indifferenza; sono stati emarginati dalla vita culturale, proprio perché espunti dal mercato. Conseguentemente hanno cercato di risalire la china con tentativi  di avanguardismo, con sperimentalismi che hanno minato la tradizione dei canoni della forma poetica, anzi hanno spesso evaporato la poesia stessa.
   Gli artisti invece hanno potuto muovere e accumulare ancora denaro. A volte tanto. A volte piegando la loro arte alla tecnica e al mercato. A volte contestando e protestando. A volte, e sempre di più, provocando. Pochi però, perché i molti sono ormai stanno alla stregua dei poeti.
   I pochi lo hanno potuto fare perché la loro arte si realizza nell’unicità materiale dell’opera, che, perciò, può diventare esclusiva proprietà di un solo acquirente. E ciò risponde essenzialmente alle esigenze precipue del  mercato nella trasformazione dell’opera in merce per mezzo del denaro. Così che l’opera vale soprattutto come investimento.
   Proprio le esigenze del mercato hanno determinato le dinamiche convulse dell’arte nella ricerca di innovazioni, con la rincorsa dell’originalità, spesso scambiata con le trovate più strambe.
  Certamente è difficile rintracciare la continuità dell’arte nel tempo dopo le  contestualizzazioni, le decontestualizzazioni, le concettualizzazioni, le installazioni, le performance, ecc,. Non credo sia semplicistico pensare che l’arte attuale sia diventata qualcosa di molto diverso dall’arte del passato e  della tradizione. Nonostante gli sforzi e le giustificazioni dei critici.


sabato 11 luglio 2015


Questa Lettera  tratta dal mio LETTERE BIGLIETTI E BIGLIETTINI
edito da SIMPLE, fu indirizzata da me a Giovanni Marzoli, che la pubblicò
sulla sua rivista letteraria CONTROVENTO NEL 1974.
La ripubblico qui in omaggio e in ricordo di Giovanni Marzoli, uomo
di lettere e di grande cuore.

           A G. MARZOLI   (1974)

Quando io ti scrissi il due d’agosto                                              
Ancora la rivista non m’era arrivata.
Se l’avessi aspettata da un uomo a cavallo                                       
Di certo mi sarei dato mille pensieri:                                                    
O che il cavallo si fosse rotto un garetto,
O che un ferro cavato gli fosse dall’unghia consunta,
O che al cavaliere rotti si fossero                                                           
I glutei per il troppo lungo viaggio,                                                
O altra induzione di certo avrei fatta.

Oggi la posta, si sa, cammina col treno                                          
Ed arriva alle case secondo un sistema
Perfettamente regolato in ogni suo punto,
Giacché strumenti ognora  più veloci s’inventano
E organizzazioni puntuali si studiano
Perché sicuro e celere ciascuno si muova,
ma dove ognuno  confuso come a rete s’impiglia
Per cui si procede sempre più lenti e impacciati;
Perciò io ogni lettera resto
Ad aspettare tranquillo per mesi, quand’anche
D’essere al macero andata il dubbio ci fosse.                               
In verità io la rivista l’ebbi dopo circa venti giorni,
Pensa, portata dal postino fino a casa!
Un crumiro lo diranno i suoi colleghi,
Io un fior di galantuomo
Poiché non ha neanche soppesato il pacchetto
E per via di pochi grammi in soprappeso,
In barba alle leggi sindacali,
Non mi ha mandato affatto a ritirarlo,
Nell’ora di lavoro, all’ufficio della posta;
Come vedi un fiore d’impiegato, uno su mille.
Non appena ricevetti le ponderose copie
Avrei potuto scriverti, ma come sempre
Testardo anche mandarti
Una poesia volevo, che da tempo zittiva
Nel cassetto fra tutte le mie carte,
Dove il mio demone della lima rovista
Mai pago di rifinire ora questo
Ora quel verso che chiede appena un colpetto
Per sentirsi più sano, più vispo, più bello.

Pur ecco ho trovato il tempo ( ah, questo maledetto
Tempo che ci sfugge !) per dirti il mio pensiero
Sulla rivista, su come l’ho trovata
Nella nuova veste: bella! giovane e bella
Come una ragazza d’anni ventisei vestita a festa!
Ho scorso le pagine una per una sino alla fine,
Soffermandomi più a lungo laddove il discorso
Lumeggiava la tua nobiltà di parola e di vita
E sulla tua profonda  umanissima “Preghiera”.

Chi può contare le fatiche
Per ciò che di nobile si pubblica ?
Non di certo i nostri nuovi principi dimentichi
Della valenza delle arti nella civiltà dei popoli!
Non di certo una classe dirigente ottusa
Alla bellezza che crea e che al senso del mondo
Il cuore degli uomini ispira!
Noi poeti non produciamo beni che crescono al sole,
Né alimenti che ingozzano folle,
Non denari che ingrassano banche,
Non assordiamo le città con le nostre officine,
Né schiamazziamo nelle piazze
Per aumenti di salario.

In un secolo in cui s’intendono solo le voci                                 
Acri e sanguigne del capitale e del lavoro
Combattersi  per beni materiali                                                        
Chi vuoi che scruti la fiamma dello spirito
Che s’accende dalle nostre ignee parole?
O parole che hanno radici nelle nostre coscienze
E non si pagano! O le nostre coscienze
Tormentate al creare e ricreare sentimenti
Del tempo che ravvivano la cultura e l’uomo!
Ma chi s’accorge di ciò ? Come poeti
Non siamo un sindacato, né raccogliamo voti
Per coloro che imperano e, dunque, non dobbiamo
Pagine avere che per nostre spese.
Ben misera cosa è pagarsi le pagine che recano         
Impresso il nostro bisogno di  dire,
Ma non così come il far di quegli attori
Che per pagarsi gli agi della vita
Come gli antichi buffoni di sé davanti al volgo
Tra di loro si prendono a sberleffi.

Vero è che spesso ci leggiamo solo tra noi
E pochi altri sensibili al canto delle muse,
Tanto che a volte mi par che ogni poeta
Sia costretto a fare come il gatto quando
Con se stesso gioca e la coda s’acchiappa.
E questo già mi duol per questo mondo
Che si regge sul ferro e sul petrolio,
Che sempre più alle sue macchine somiglia.
Ora ho fatto troppo lungo il mio discorso
E te ne chiedo venia; e mentre mi congedo
Augurale ti lancio un saluto: Orsù,
Con la rivista vola al cinquantennio!