Riporto qui di seguito la PREMESSA alle LETTERE e la lettera/satira ALLA MORTE tratte dal mio LETTERE BIGLIETTI E BIGLIETTINI autoedito con
EDIZIONI SIMPLE
PREMESSA
Vocabolari e storiografia letteraria sono concordi: la satira trae il suo nome da un piatto di varie vivande offerto agli dei, in quanto composizione di forme e contenuti variabili, di versi e prosa, cioè da ciò che è indicato con “satura”. Un miscuglio insomma, quasi un minestrone.
D’altra parte, però, basterebbe non trascurare quello che scrivono gli storici dell’antichità in proposito. Si coglierebbe facilmente la discendenza della satira da una specie di danze e di canti dei romani nei primi secoli, quindi da ciò che è derivato da “satyrus”.
Dionisio di Alicarnasso nella sua Storia di Roma arcaica (siamo nel V sec. A.C.) nel Cap. VII al punto 72.10, a proposito delle processioni, scrive: “Infatti ai danzatori armati facevano seguito i danzatori travestiti da satiri, che imitavano le danze sicinnide…..Costoro motteggiavano e imitavano i movimenti solenni, volgendoli in ridicolo”.
. Sappiamo che questa tradizione popolare, diciamo anche plebea, giunge fino alle soglie dell’Impero, quando i legionari nei cortei trionfali di Cesare cantavano: “Ecco, ora trionfa Cesare che sottomise le Gallie e non trionfa Nicomede che mise sotto Cesare”.
Se si raccogliessero e raccordassero i verbi “schernire, motteggiare, facevano parodie” di cui parla Dionisio in proposito, si vedrebbe bene che questi sono i verbi propri di quella che poi sarà la satira nel suo manifestarsi nella storia letteraria. Si vedrebbe bene che, muovendo dai modi espressivi di coloro che, coperti di pelli di capre, rappresentavano i satiri, poeti e scrittori dei secoli seguenti realizzeranno opere letterarie non solo con linguaggio di scherno e motteggio, ma con raffinata ironia, sarcasmo, come con Marziale, di critica e denuncia e ancora di linguaggio beffardo, caustico, mordace, fino anche alla violenta fustigazione morale, come con Giovenale.
Qui, in queste mie “lettere”, io ho voluto seguire in qualche modo sia l’una che l’altra interpretazione. Di fatto ho scritto quasi un “minestrone”, cioè un miscuglio di versi di varia misura che si assommano in ciascun verso della composizione; riguardo al contenuto, al genere, però ho tentato, così come m’è venuto, di seguire lo spirito ironico, di denuncia che scaturisce dal mio senso di amarezza, da delusione profonda nei confronti del cammino dell’uomo nella storia.
Composizioni, che ho voluto chiamare lettere, poiché con esse retoricamente mi sono rivolto a persone vive e defunte, e, curiosamente, persino alla Morte e alla Vita. A me, però, non sembra poi tanto strano, giacché oggi non pare che ci sia tanta possibilità di comunicazione interpersonale concreta, in quanto basata su rapporti affettivi e rilevanze emozionali. Meglio parlare con i Morti, cioè con i loro libri, e meglio parlare con se stessi, fingendo di rivolgersi alla Morte e alla Vita, che parlare in modo impersonale e convenzionale sul filo dei moderni mezzi elettronici e nelle corse affannose degli affari
del nuovo sistema di vita.
ALLA MORTE
Eri già tesa nel buio dei millenni
A spiare il mio attimo di luce
Nel miracolo arcano dell’esistere,
Morte terrifica!
La mia adolescenza ti sorprese
Dentro di me in un angolo nascosta
Nel tuo agguato paziente una sera;
In me ti scopersi come a specchio concavo
E in me fu vuoto, e orrore di conoscerti,
Alla mia coscienza saperti inalienabile,
Ho imparato a portarti dentro l’essere mio stesso
Mentre il tuo ascolto dentro al mio respiro,
Giorno per giorno, e tu conti i miei minuti
E gelida ti scaldi al mio calore.
Sei più ripugnante d’ogni delusione,
Più amara d’ogni speranza perduta,
Terribile più dell’abisso che il pensiero discopre.
Nell’implacabile odio che non ti dà requie
Cerchi la Vita, tu sorella nemica sua ferale,
In ognuno di noi e t’illudi di strozzarla
E finirla con le adunche orribili tue mani;
Ma essa ti sfugge d’uno in altro
E d’uno in altro fulgida fiorisce,
Bellissima nelle recondite gioie
Che dal mondo s’insinuano dolci nei sensi sottili.
Tu dibatti le ali maligne, brancoli cieca e la Vita
Insegui più immonda della iena
Che nel deserto si sazia seguendo le tue orme,
Prendi noi ad uno ad uno
Come a scatto di trappola tremenda,
D’ira livida nella tua illusione funesta.
Ma olimpico dal cielo il sole irride
Alla tua rabbia impotente e indicibile,
Infinita come l’immenso.
Ed io un ghigno, prima che mi prenda,
Sull’orrenda tua maschera ti faccio
Mentre tracanno un bicchiere di vino,e la Vita
Bella, radiosa, ineffabile, godendo saluto:
Salve o Vita imperitura,
Ambrosia divina del cielo e della terra,
Trionfo d’uomini, di piante e d’animali.
E tu, Morte, nefanda Morte, crepa di rabbia !