sabato 24 aprile 2021

                                   VI

  I CANTI SESTI DELLE TRE CANTICHE

   Nella lettura della Commedia colpisce la complessa e rigorosa razionalità dell’architettura progettuale dell’opera, nella cui articolazione risalta anche la relazione logica e simbolica dei Canti VI dell’Inferno, VI del Purgatorio e VI del Paradiso.

   Nel Canto VI dell’Inferno, il Poeta incontra il simpatico fiorentino Ciacco, che in vita pensò solo ai piaceri della gola, e lo fa parlare delle caratteristiche dei suoi concittadini, che al contrario di lui, goloso e godereccio, si scannano nell’invidia, nell’avarizia e nella superbia.

   Nel Canto VI del Purgatorio, Dante e Virgilio incontrano Sordello. Al palesamento di costui come mantovano, Virgilio e Sordello si abbracciano nel comune sentimento di amor di patria in quanto entrambi mantovani. Al vederli abbracciarsi, Dante prorompe nell’apostrofe all’Italia: “Ahi serva Italia, di dolore ostello/ Nave senza nocchiero in gran tempesta/ Non donna di provincie ma bordello!...”.

   Nel Canto VI del Paradiso, il Poeta fa parlare l’imperatore Giustiniano, che ripercorre la storia di Roma e del suo impero, per poi condannare i guelfi e i ghibellini, le cui lotte sono manifestazioni di interessi particolari, che provocano la decadenza dell’impero.

   Ciò che per primo qui mi spinge a parlare di questi tre Canti è l’evidente simbologia numerologica della loro collocazione nell’architettura del poema: Canto VI di ogni Cantica.

    Sotto il profilo degli ordinali sembrerebbe tutto normale, ma se quegli ordinali si fanno cardinali, allora appare qualcosa di sorprendente, cioè che i numeri 6-6-6, tolte le lineette di separazione, formano il numero 666, che, a prima vista, appare come il cosiddetto numero della Bestia, cioè il numero del diavolo.

   Ma nel caso di Dante mi pare troppo azzardata e semplicistica l’identificazione del 666 col numero della Bestia, poiché le sue conoscenze sulla simbologia dei numeri dovrebbe essere stata vasta e approfondita non solo riguardo alla cabala e alla numerologia pitagorica, ma anche a quella dei Templari. 

  Questa considerazione non mi sembra avventata o superficiale, giacché abbiamo osservato e considerato precedentemente quanto il numero tre e suoi multipli, specialmente il numero nove, siano significativi nella Vita Nova e nella Commedia, in particolare nell’identificazione del numero nove con Beatrice.  

    Infatti, sempre seguendo i comuni i procedimenti numerologici, si può o si deve procedere alla somma delle cifre 6+6+6 = 18, per cui con altro passaggio si ha 1+8 = 9.  E così si torna al numero 9  di Beatrice!

    Ma poiché non ho alcuna preparazione in fatto di simbologie numerologiche, non posso inoltrarmi in ipotesi improbabili: mi basta sottolineare l’importanza che la numerologia assume non solo nell’architettura della Commedia, ma anche nella complessità del sapere  e del linguaggio dantesco.

   Dei tre Canti, però, mi coinvolge, non meno della simbologia numerologica, l’argomento politico, per cui mi sorge la domanda: Perché Dante l’ha voluto mettere così in risalto nei tre Canti?

   Nei commenti ci si sofferma più o meno sempre sul percorso della purificazione spirituale  del Poeta e ben poco sulla passione politica che ne ha lacerato il cuore e la vita nell’amarezza delle sue vicissitudini: “Conoscerai quanto sa di sale/ Lo pane altrui e quanto è duro calle/ Lo scendere e ‘l salir per altrui scale”!

   Eccolo qua, nei tre Canti, il Dante vivo che sanguina nella carne per la sua profonda delusione: ha voluto e vorrebbe ancora agire per il bene della sua Firenze e per il bene dell’Italia, ma la malvagità degli uomini che lottano per i propri particolari interessi, non solo glielo hanno impedito, ma lo hanno condannato all’esilio e a perdere il bene supremo della famiglia.

   Ed allora non mi pare che il suo pensiero politico debba essere considerato tanto secondario rispetto al percorso spirituale tracciato nel suo poema. Basterebbe rifarsi alla “selva selvaggia aspra e forte/ Che nel pensier rinnova la paura”, cioè alla selva non intesa come momento di disorientamento morale di Dante, ma come groviglio di accadimenti perversi sul piano politico che sconvolgono la sua vita e ne determinano la precarietà esistenziale e la sofferenza spirituale, con la sola consolazione della speranza di ritrovare “la diritta via” in un cambiamento delle condizioni e dell’azione benefica dell’impero.

    

 

 

 

 

 

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giovedì 1 aprile 2021

                       LA POESIA COME ARMA VENDICATIVA

  La lupa, la lonza e il leone sono le tre bestie che “nel mezzo del cammin di nostra vita” e nella “selva selvaggia aspra e forte/ Che nel pensier rinnova la paura” si oppongono a Dante nella sua risalita verso il monte della speranza.

   Se le tre bestie nemiche sono i simboli dei suoi tre nemici, a parte le interpretazioni dei numerosissimi e autorevolissimi commentatori della Commedia, allora la lupa personifica Bonifacio VIII, il leone Carlo di Valois, ed è evidente che la lonza “dalla gaietta pelle” (le interne fazioni dei fiorentini) stia a rappresentare Firenze, come origine di tutti i mali del Poeta.

   Dante è stato colpito con le calunnie nella sua dignità personale e con l’esilio nei suoi affetti più profondi, nonché nei suoi interessi economici, sociali e politici; egli perciò è spinto a reagire con tutte le sue forze e le sue armi, comprese quelle più aspre, a vendicarsi per quanto gli è possibile, dei suoi nemici, specialmente dei suoi concittadini, da cui si sente offeso e tradito mortalmente.

   Con la condanna all’esilio e la minaccia di morte è ridotto ad essere solo contro tutti, senza altre armi che la sua poesia, con cui si scaglia contro Firenze e i suoi concittadini, a volte superando anche i limiti del suo senso di giustizia. Impossibilitato a reagire concretamente nel presente, egli non può che vendicarsi nella storia, distruggendo con i suoi versi la fama dei suoi avversari, specialmente dei suoi concittadini. Lo fa in diversi episodi della Commedia, ma io qui mi limito a rifermi solo ad alcuni che più mi colpiscono.

    Così nel Canto VI dell’Inferno, quando incontra Ciacco, gli fa dire: “La tua città ch’è piena/ D’invidia che già trabocca il sacco”.E questa non è una carezza per  la sua amata Firenze. E su richiesta di Dante, Ciacco soggiunge: “Dopo lunga tencione/ verranno al sangue e la parte selvaggia/ Caccerà l’altra con molta offensione/ Poi appresso convien che questa caggia/ Infra tre soli, e che l’altra sormonti/ Con le forze di tal (alludendo a Carlo di Valois) che testé piaggia”. Qui ci si può sottindendere la domanda: In questa città così turbolenta e crudele tutti i cittadini hanno invidia l’uno dell’altro e ognuno odia l’altro? E Ciacco la previene e risponde: “Giusti eran due (uno è Dante?) e non vi sono intesi/ Superbia, invidia e avarizia sono/ Le tre faville ch’hanno i cuori accesi”.

    Il giudizio che Dante fa pronunciare a Ciacco sulla sua Firenze e sui suoi concittadini sa di colpi di staffile. Non l’ironia dunque, non il sarcasmo che può affiorarare in un animo distaccato o anche turbato, ma staffilate che vengono da un cuore lacerato e sanguinante, combattuto tra amore e odio, carico di risentimenti vendicativi e livore che rasenta l’ingiustizia, poiché anch’egli aveva fatto parte precedentemente alla cacciata dei Neri.

    Non meno significativa è la vendetta poetica di Dante nei confronti del concittadino Filippo Argenti nel Canto VIII dell’Inferno. Nei confronti di questo suo concittadino dannato tra gli iracondi, il sentimento vendicativo è implicito, poiché Dante non ne dice il motivo, , ma tutto l’episodio e specificamente il risentimento di Dante fanno dedurre un forte spirito vendicativo del Poeta e pensare ad un motivo del tutto personale non rivelato, ma volutamente taciuto.

   Più che di sarcasmo sembra trattarsi di un vero e proprio insulto aggressivo, allor che gli si rivolge dicendogli: ”Ma tu chi se’ che sì se’ fatto brutto?” L’Argenti non dice il suo nome, ma Dante lo aggredisce: “Con piangere e con lutto/ Spirito maledetto ti rimani/ Ch’i’ ti conosco ancor se’ lordo tutto”. Poi però Dante fa gridare il nome di lui da tutti i condannati suoi compagni: “A Filippo Argenti!” / E il fiorentino spirito bizzarro / In sé medesmo si volvea co’ denti”. Così la sua fama veniva distrutta nelle future generazioni, gravissima condanna in quanto  “dannazio memoriae” già largamente praticata con altri mezzi dai romani.

   Nel canto XV dell’Inferno, fra i violenti contro natura, Dante ha un incontro col suo maestro Brunetto Latini. Un incontro così sorprendente che  fa esclamare Brunetto, rivolto a Dante: “Qual maraviglia!”;  che poi con l’espressione di un grande affetto aggiunge: “O figliuol mio, non ti dispiaccia/ Se Brunetto Latino un poco teco….” Nei versi traspira l’atmosfera di affetto, che è propria del rapporto maestro-scolaro. E bella è l’espressione del Maestro nel riconoscere nell’antico alunno il genio ormai fiorito nella poesia, tanto che dice a Dante:: “…Se tu segui tua stella/ Non puoi fallire a glorioso porto/ Se ben m’accorsi nella vita bella/ E s’io non fossi sì per tempo morto/ Veggendo il cielo a te così benigno/ dato t’avrei all’opera conforto”.

   Ma poi gli predice le disgrazie che gli saranno procurate da Firenze:   “…. Ma quello ingrato popolo maligno/… Ti si farà per tuo ben far nemico/ … “Vecchia fama nel mondo li chiama orbi/ Gente è avara, invidiosa, superba/ Da lor costumi fa che tu ti forbi.

    Voglio concludere questo mio breve discorso con un’ultima nota, un ultimo  “episodio”,  quello  dei dannati per furti. Dopo che nel Canto precedente Dante aveva descritto le trasformazioni serpentesche  di cinque ladri fiorentini, inizia il successivo Canto XXVI con l’invettiva:” Godi Fiorenza, poiché se’ si grande7 Che per mare e per terra batti l’ale….” Il sarcasmo di questi versi contro la sua Firenze, resa famosa per i suoi ladri, risuona tagliente e forte nella storia letteraria del mondo presente e futuro.; una bella vendetta per il cittadino e l’uomo Dante.