domenica 27 maggio 2012


                                          FUNZIONE DELLA POESIA 4
   Tempo fa pubblicai una mia raccolta di epigrammi scritti in forma di stornelli con una sorta di linguaggio dialettale non specifico. L’Editore, uno di quelli on line, l’inserì in una sua collana di “Varie” anziché in quella di “Poesia”. Così è, oggi. S’identifica la poesia con un suo genere, quello della lirica. Se non è lirica, non è neanche poesia. Perciò si può affermare che il nostro sistema culturale rivoluzionato dalla tecnica, caratterizzato dalla velocità e dalla provvisorietà, non può accettare in sé la poesia, se non come espressione emarginata o ridotta nei limiti del privato. Buona, insomma, per esprimere stati d’animo e sentimenti; buona a starsene rincantucciata sul piano dell’acchiappanuvole e per questo incoraggiata dalla classe dirigente con concorsetti come al gioco della briscola.
  Obiettivamente, in queste condizioni, chi oggi si azzarderebbe più a scrivere un poema, un’ecloga, un’elegia, un’ode? Tutte forme che richiedono tempo e meditazione, tutte uscite dagli schemi della poesia contemporanea e che stanno nella letteratura come testimonianze, come storia.
   Eppure la poesia non deve e non può essere residuale. Bisogna custodirla, almeno nelle sue forme più vive e tuttora più efficaci. Non è cosa da buttare nei ripostigli della storia, come i reperti archeologici negli scantinati dei musei. Poiché l’uomo, anche in questo scorcio della sua cultura tecnologica, conserva la sua integrità e, quindi, la potenzialità di sviluppo di tutte le sue dimensioni, compresa quella della sua creatività poetica.
    Per queste considerazioni, la poesia potrà svolgere ancora diverse sue funzioni specifiche almeno sul piano dell’estetica. Potrà perdere forme ed acquisirne di nuove; potrà anche perdere funzioni obsolete, come quella encomiastica o quella celebrativa. Ma ci sono tuttora funzioni che possono essere incisive anche nell’attuale realtà socioculturale. Una di queste funzioni, io penso , è quella della satira; e una delle sue forme è l’epigramma.
    Per la sua sinteticità , per la sua concisione, per la brevità e per la velocità di espressione del pensiero, l’epigramma può rispondere efficacemente alle esigenze della società tecnologica. Può sensibilizzare, richiamare, sollecitare al di là delle battute, delle freddure, delle vignette satiriche, delle scenette comiche , che si esprimono su altri versanti e che straripano dalle trasmissioni televisive e molto limitatamente dalla carta stampata.
    Tempi forse felici per la comicità teatrale e televisiva, quelli attuali. Tempi tristi invece per la satira poetica: non abbiamo oggi un giornale satirico, su cui, accanto alle vignette, poter leggere satire ed epigrammi. Gli epigrammi infatti possono esprimere lo spirito satirico in modi e sensibilità diverse dalle vignette, che si realizzano con altro linguaggio e sul piano dell’improvvisazione, nel modo più diretto e legate al temporaneo con lo strumento delle cosiddette battute, in cui si concentra la manifestazione del ridicolo, a volte con la più pungente  efficacia. Gli epigrammi si esprimono con più studio, con maggiore artificio, con più attenzione artistica, tale da superare anche la temporaneità, per accedere a quell’efficacia che caratterizza i massimi modelli della letteratura del passato.
    Ancora oggi possiamo goderci l’epigramma del vescovo Paolo Giovio contro Pietro Aretino: “Questi è l’Aretin, poeta tosco; /Di tutti disse mal fuorché di Cristo, /Scusandosi col dir: Non lo conosco”. Né possiamo dimenticare l’altro del Foscolo: “Questi è il Monti, poeta e cavaliero,/Gran traduttor de’ traduttor d’Omero”, diretto polemicamente  contro il Monti che aveva tradotto l’Iliade senza conoscere il greco.
    Piccoli capolavori, certamente di altissima fattura poetica.




mercoledì 23 maggio 2012

Altro mio epigramma

                               GLOBALIZZAZIONE

                  Aboliamo i confini,
                  Alle genti parliamo
                  Di santa tolleranza:
                  O delle multinazionali
                  La santa fratellanza!




domenica 13 maggio 2012


                                 FUNZIONE DELLA POESIA  3
   Nei miei recenti post dedicati alla poesia, avevo scritto che in passato questa aveva svolto non poche volte una funzione di sostegno al potere, come nella corte augustea e in quelle rinascimentali. Fino a non molto tempo fa, in effetti la poesia ancora svolgeva una funzione viva ed operativa all’interno del sistema sociale, anche come strumento di produzione del consenso.
    A questo proposito, proprio giorni fa, Franco Cordero scriveva su La Repubblica del 26 aprile 2012 con riferimento alla guerra di Libia: “…. dal Corriere della Sera D’Annunzio canta le Gesta d’Oltremare in terzine dantesche, dieci canzoni, 8 ottobre 1911- 14 gennaio 1912. Albertini gliele paga 1250 lire l’una ( insomma D’Annunzio incassa 12500 lire di quei tempi – n.d.s.-) Albertini ci tira un milione di copie del suo Corriere della Sera”.  Franco Cordero aggiunge, sempre con riferimento alla guerra di Libia: “Giovanni Pascoli tiene un discorso che ai miei tempi figurava nelle antologie,<<La grande proletaria s’è mossa>>”. Figuriamoci: il pacifista e socialista Pascoli che diventa sostenitore di una guerra coloniale!
   Oggi è cambiata profondamente la struttura della nostra società ad opera soprattutto della tecnica: ne risultano modificati i nostri modi di pensare e di vivere, quindi i nostri modi operativi, i nostri personali atteggiamenti. La funzione della poesia ora è davvero ridotta alla sola sfera personale e intimistica. E’ così marginale che  il potere l’ha utilizzata in questi ultimi tempi come strumento consolatorio per il cosiddetto  tempo libero; tanto che prima dell’attuale crisi finanziaria non c’era ente, dopolavoro, associazione che non bandisse il suo bravo concorso poetico, premiando i concorrenti come ad un concorso del gioco delle bocce o del gioco a briscola. In fondo a questa dimensione sociale è stata ridotta la funzione della poesia, soprattutto da una politica quanto mai ottusa e gretta.
    Bisogna però chiedersi se davvero la poesia può essere emarginata in modo così mortificante. Certamente lo può essere col suo consenso, cioè se i poeti accettano di limitare la  loro funzione a una poetica dell’intimismo, al ripiegamento della loro personalità su se stessa, se davvero rinunciano ad una loro funzione sociale, di partecipazione alla costruzione della parte più profonda della nuova umanità. Non dovrebbero.
    Di fronte ad un mondo così alienante e sempre più tecnicizzato, i poeti dovrebbero costituire la forza più reattiva per sommuovere il mondo affettivo e relazionale dell’uomo, certamente non per contrapporlo a quello della tecnica, ma per affrancarne la dimensione spirituale e rafforzare la libertà dell’uomo a fronte di un potere finanziario che minaccia di diminuirne le possibilità di sviluppo in un futuro sempre più tenebroso..






giovedì 3 maggio 2012


                                                      IERI  E  OGGI
  Le grandi cose passano. Le mediocri ritornano. Come le mode. I grandi della poesia epica, quelli dei poemi cavallereschi e quelli della poesia lirica stanno lì, nella storia, come monumenti solitari, inarrivabili, ma fuori dal nostro tempo. Ritornano invece sull’orma di qualche grande  gli imitatori, con pretese innovazioni che sono invece soltanto variazioni.  Prendiamo ad esempio il principio enunciato dal Marino “E’ del poeta il fin la meraviglia…Chi non sa far stupir vada alla striglia”. Quelli che ne seguirono le orme esasperarono le immagini in metafore insensate. Furono davvero mediocri. Di Claudio Achillini si può riportare il verso “Sudate o fochi a preparar metalli” (per cui i fuochi si misero a sudare) o anche la cervellotica metafora “Della padella del ciel la gran frittata”( per cui il cielo si fece padella e la luna apparve una frittata!). Così procede per metafore sbilenche e stralunate. Del medesimo riporto qui il seguente sonetto sulla donna che si pettina.

Onde dorate, e l’onde eran capelli,
navicella d’avorio un dì fendea;
una man pur d’avorio la reggea
per questi errori prezïosi e quelli;
e, mentre i flutti tremolanti e belli
con drittissimo solco dividea,
l’òr de le rotte fila Amor cogliea,
per formarne catene a’ suoi rubelli.

Per l’aureo mar, che rincrespando apria
il procelloso suo biondo tesoro,
agitato il mio core a morte gìa.
Ricco naufragio, in cui sommerso io moro,
poi ch’almen fûr, ne la tempesta mia,
di diamante lo scoglio e ’l golfo d’oro.
Certe variazioni formali del marinismo, le peggiori , mi pare che siano tornate in certa poesia del secolo scorso e in quella del presente. Anche se con motivazioni diverse dalla “meraviglia” mariniana.  A leggere l’accozzaglia di metafore di poeti che vanno per la maggiore e di poetastri che li imitano vengono giramenti di testa. Non si capisce più se siamo ubriachi noi che leggiamo o se essi, prima di scrivere, si siano rimpinzati dei vari fumi, mentali o solo culturali, che avviluppano la vita e la cultura del nostro tempo. Con un’aggravante: invece che in versi, scrivono in prosa spezzettata di a capo.