venerdì 29 giugno 2018


Riporto qui di seguito un brano del mio libro POESIA E FORMA autoedito con YOUCANPRINTin cartaceo e in ebook.

     TRE SONETTI DI TRE POETI DEL PASSATO

   Un’occasionale rilettura del sonetto del napoletano Cavalier Marino sulla vita dell’uomo mi ha suscitato richiami per altri due sonetti sullo stesso argomento, che pure avevo letto tempo addietro, uno del reatino Loreto Mattei e l’altro del romano
G.G. Belli.
   Il Marino compose in lingua il sonetto “La vita dell’uomo” con una struttura poetica senza fronzoli, essenziale e compatta. Proprio il contrario della sua poetica ricchissima di costruzioni retoriche, tanto che il suo poema “Adone” ha una stesura  più lunga di quella dell’Orlando Furioso, ridondante, pur con una trama lineare e di molto più povera.
   Mattei compose in dialetto reatino “La vita dell’ome” alcuni decenni dopo la morte del Marino, quindi nello stesso secolo diciassettesimo.
   Evidentemente era stato influenzato dal sonetto del poeta napoletano a tal punto da volerne ripercorrere moti e modi, vibrazioni interiori e percorsi tematici nel suo linguaggio dialettale. Ed avvertiva che proprio la crudezza e l’icasticità del dialetto, a confronto della lingua usata dal Marino, gli avrebbero reso possibile l’espressione di una sua personale originalità poetica, insomma la manifestazione di una sua propria
originale creatività e non la pedante e passiva imitazione.
   Lo stesso fece il Belli due secoli dopo col suo sonetto in dialetto romanesco “La vita dell’Omo”, forse con lo stesso intendimento del Mattei, e  raggiungendo risultati di efficacia non meno sorprendenti di quelli
conseguiti dal Mattei.
  Insomma per i tre poeti, la poesia è stata strumento non di riflessione filosofica sull’uomo, ma di espressione di un proprio modo di sentire e di cogliere lo scorrere del tempo in rapporto alla caducità e alla crudezza della vita dell’uomo. Per essi la poesia ha avuto una funzione espressiva davvero efficace.  
   Queste considerazioni mi hanno sollecitato al confronto tra  il nostro vivere  presente e il modo di vivere del passato, tra il mondo dei poeti di ieri e il mondo dei poeti del nostro tempo. I primi riuniti in vivacissime accademie (quella del Tizzone per il Mattei e quella Tiberina per il Belli) sotto la protezione di nobili e prelati in un mondo ad economia di rendita; i secondi, cioè i poeti contemporanei, sono invece affannati in solitudine ad annaspare con artifici retorici in un mondo  condizionato  da un’economia d’impresa, che tutto distrugge e fagocita nel rapporto tra prodotto e consumo, e che misura ogni valore sul metro del denaro.
   Oggi, infatti, non si può che constatare la dissipazione della funzione poetica, soprattutto in relazione alle innovazioni radicali sul piano delle nuove tecnologie. Certamente siamo indotti a domandarci se con la rivoluzione culturale che si va realizzando con le tecnologie informatiche e i nuovi mezzi di scrittura sarà ancora possibile una poesia così come si è andata strutturando nel passato.

         
   Cavalier Marino (1569/1625)
        LA VITA DELL’UOMO

Apre l’uomo a fatica, allor che nasce
In questa vita di miserie piena,
Pria ch’al sol gli occhi al pianto e, nato a pena,
Va prigionier tra le tenaci fasce.

Fanciullo, poi che non più latte il pasce,
Sotto rigida sferza i giorni mena;
Indi, in età più ferma e più serena,
Tra Fortuna e Amor more e rinasce.

Quante poscia sostien, tristo e mendico,
Fatiche e morti, infin che curvo e lasso
Appoggia a debil legno il fianco antico?

Chiude alfin le sue spoglie angusto sasso,
Ratto così che sospirando io dico:
Dalla cuna alla tomba è un breve passo!

       Loreto Mattei (1622/1705)
LA VITA DELL’OME

Appena l’ome è scito dalla coccia,
Piagne li guai séi, strilla e scannaccia;
Tra fascia e fasciaturi s’appopoccia
E tutti, co’ reerenzia, li scacaccia.

Quanno la mamma più no lu sculaccia,
Lu mastru lu reatta e lu scococcia;
Quanno è ranne se ‘nciafra ‘nqua ciafraccia
E co’ quaeunu lu capu se scoccia.

Tantu attraina po’ tantu la ‘mpiccia,
Scinente che appojatu a ‘na cannuccia
‘Nciancicà non po’ più se non paniccia.

Co’ tre stirate ‘e cianchi la straspiccia.
Lo nasce e lo morì, icea Quagliuccia,
Vau accacchiati coe la sargiccia.



G.G. Belli    1791/1863
LA VITA DELL’OMO

Nove mesi a la puzza: poi in fasciola
tra sbaciucchi, lattime e llagrimoni:
poi p’er laccio, in ner crino, e in vesticciola,
cor torcolo e l’imbraghe pe’ ccarzoni.

Poi comincia er tormento de la scola,
l’abbeccè, le frustate, li ggeloni,
la rosalía, la cacca a la ssediola,
e un po’ de scarlattina e vormijoni.

Poi viè ll’arte, er diggiuno, la fatica,
la piggione, le carcere, er governo,
lo spedale, li debbiti, la fica,

er zol d’istate, la neve d’inverno...
E per urtimo, Iddio ce bbenedica,
viè la Morte, e finissce co’ l’inferno.











domenica 17 giugno 2018


Riporto qui di seguito un brano del mio libro POESIA E FORMAautoedito con YOUCANPRINTin cartaceo e in ebook.
                        FUNZIONE DELLA POESIA 
   Nei miei recenti post, avevo scritto che in passato la poesia  aveva svolto non poche volte una funzione di sostegno al potere, come nella corte augustea e nelle corti rinascimentali. Fino a non molto tempo fa, in effetti la poesia ancora svolgeva una funzione viva ed operativa all’interno del sistema sociale, anche come strumento di produzione del consenso. 
   A questo proposito, proprio giorni fa, Franco Cordero scriveva su La Repubblica del 26 aprile 2012 con riferimento alla guerra di Libia: “…. dal Corriere della Sera D’Annunzio canta le Gesta d’Oltremare in terzine dantesche, dieci canzoni, 8 ottobre 1911- 14 gennaio 1912. Albertini gliele paga 1250 lire l’una ( insomma D’Annunzio incassa 12500 lire di quei tempi – n.d.s.-) Albertini ci tira un milione di copie del suo Corriere della Sera”.      
  Franco Cordero aggiunge, sempre con riferimento alla guerra di Libia: “Giovanni Pascoli tiene un discorso che ai miei tempi figurava nelle antologie, “La grande proletaria s’è mossa”. Figuriamoci: il pacifista e socialista Pascoli che diventa sostenitore di una guerra coloniale!”
   Oggi è cambiata profondamente la struttura della nostra società ad opera soprattutto della tecnica: ne risultano modificati i nostri modi di pensare e di vivere, quindi i nostri modi operativi, i nostri personali atteggiamenti.
   La funzione della poesia ora è davvero ridotta alla sola sfera personale e intimistica. E’ così marginale che  il potere l’ha utilizzata in questi ultimi tempi come strumento consolatorio per il cosiddetto  tempo libero; tanto che prima dell’attuale crisi finanziaria non c’era ente, dopolavoro, associazione che non bandisse il suo bravo concorso poetico, premiando i concorrenti come ad un concorso del gioco delle bocce o del gioco a briscola. In fondo a questa dimensione sociale è stata ridotta la funzione della poesia, soprattutto da una politica quanto mai ottusa e gretta.
    Bisogna però chiedersi se davvero la poesia può essere emarginata in modo così mortificante. Certamente lo può essere col suo consenso, cioè se i poeti accettano di limitare la loro funzione a una poetica dell’intimismo, al ripiegamento della loro personalità su se stessa, se davvero rinunciano ad una loro funzione sociale, di partecipazione alla costruzione della parte più profonda della nuova umanità. Non dovrebbero; secondo anche una dimensione civile, oltre che culturale.
    Di fronte ad una realtà così alienante e sempre più tecnicizzata come l’attuale, i poeti dovrebbero costituire la forza più reattiva per sommuovere il mondo affettivo e relazionale dell’uomo, certamente non per contrapporlo a quello della tecnica, ma per affrancarne la dimensione spirituale e rafforzare la libertà dell’uomo a fronte di un potere finanziario che minaccia di diminuirne le possibilità di sviluppo in un futuro sempre più tenebroso.