domenica 16 novembre 2014

ANCORA SU ARTE E POESIA

  Arte e poesia esprimono con modi e mezzi diversi la medesimo cultura, il medesimo spirito del tempo, il carattere della stessa temperie che anima la storia; e questa anche da esse prende forma e consistenza.
  Così è stato per lunghissimo tempo, e ancora così sembra nel nostro mondo in cui scienza e tecnica  hanno espresso e determinato un nuovo modo di agire ed anche un nuovo modo di essere dell’uomo.
  Le nuove tecniche adottate dall’uomo hanno scompigliato e confuso le prospettive e le tendenze della creatività sin dal tempo della macchina fotografica, soprattutto per quanto riguarda l’arte.
  Scienza e tecnica hanno influito profondamente sulla creatività sia con i loro metodi, sia con i loro risultati, perché hanno determinato forti rivolgimenti nella cultura,  con le loro spinte verso la ricerca e la sperimentazione, con le loro macchine impiegate nella produzione, nella navigazione marittima e nel volo dell’uomo, nella mobilità e nella comunicazione.
  Hanno prodotto una rivoluzione nelle prospettive dell’agire dell’uomo e le cui ripercussioni hanno sollevato interrogativi sui modi e sugli strumenti  sia nell’arte che nella poesia, con conseguenti risposte d’avanguardia, specialmente in quella del futurismo.
  Ricerche e sperimentazioni esasperate sembrano animare la dimensione artistico-letteraria, anche come riflesso di interrogativi e proposte sul piano sociopolitico, i cui risvolti incontrollabili hanno originato sommovimenti fino a contribuire incisivamente  al determinarsi  dei terrificanti baratri dell’umanità con le due guerre mondiali.
  Ricerche e sperimentazioni esasperate  e affondate in uno scetticismo, che sfociano quasi in un furore distruttivo, in una negazione del futuro nelle   forme ed espressioni dell’arte: i tagli, le decontestualizzazioni, le installazioni, la merda d’artista. Sembra che vi siano due arti, una per il vecchio mondo e l’altra per il nuovo, che nasce e si sviluppa fra sconvolgimenti, lutti, violenze indicibili.

domenica 9 novembre 2014


                                POESIA ARTE E SPIRITO DEL TEMPO
  La poesia e le arti sono come sorelle che camminano a braccetto guardandosi negli occhi. Sorelle che manifestano reazioni a seconda della loro natura, ma che esprimono sempre lo spirito del loro tempo, di cui si nutrono e di cui rivelano sensibilità estetiche e problemi profondi dell’uomo.
  Sono come sorelle che hanno sempre una bellezza nuova, ognuna per la peculiarità che le è propria; una bellezza nuova ad ogni passo nel loro cammino, passato e futuro. Ma anche una verità sempre nuova che solo esse sanno scoprire e solo esse sanno dire, suscitare e rivelare dentro di noi.
  Bellezza e verità che hanno un’unica origine: la cultura del tempo, di cui esse sono figlie. Ecco perché come sorelle e  figlie dello spirito del tempo si riconoscono nell’attività del pensiero; come in passato con l’influenza della filosofia aristotelica per l’armonia e l’equilibrio delle forme, con l’influenza della filosofia platonica per la ricerca della bellezza ideale; come nel più recente passato con l’influenza delle nuove scienze, specialmente col freudismo e con le varie teorie psicologiche dell’ultimo secolo.
  Si disse  ut pictura poesis, ut pictura philosophia. Infatti la poesia e le arti non sono e non possono essere avulse dalle forme del sapere, della conoscenza e della coscienza critica, ma sono in comunione di spirito con le riflessioni  filosofiche, con i sentimenti della storia, con la sensibilità per le ricerche scientifiche e le realizzazioni tecnologiche.
  Non  possono perciò che nutrirsi dello spirito del tempo, con le radici  nel passato e nella cultura; con l’attenzione al presente per poi esprimerlo ciascuna nei modi e con  i mezzi propri, pur sempre collegati ai modi e alle forme di tutte le altre. E tutte oggi risentono dello spirito del nostro tempo: lo spirito tecnologico che,  impetuoso e travolgente, quasi ne soffoca e ne distorce l’espressione e persino la natura.
  Spirito del nostro tempo identificabile nello spirito d’innovazione innervato nelle nuove tecnologie, che sopravanzano quelle scienze da cui esse stesse derivano e  si sviluppano. Spirito del nostro tempo che tende esso stesso a porsi come spirito tecnologico. Uno spirito che imprime scatti e scarti anche alle arti e alla poesia, con conseguenti disorientamenti e forme confuse nel veloce sopravanzare delle dinamiche innovative.
  Per uscire dai disorientamenti le arti sono ricorse a sperimentazioni esasperate, paradossali e distruttive delle forme, fino ad escogitare le cosiddette decontestualizzazioni, concettualizzazioni, composizioni modulari, accumulazioni e tagli, virtuosismi formali, astrazioni e performance: una corsa alla ricerca dell’originalità e dell’unicità dell’opera, per superare la linea di un’immaginaria morte dell’arte,  per  sfuggire comunque al manufatto tecnologico ripetitivo e moltiplicabile all’infinito.
  Ma anche una corsa disperata dentro l’irrazionalità che il pensiero nelle sue varie forme, prima quella filosofica, non riesce a contenere di fronte al debordare nel vuoto “senza senso” e nella pura provocazione, come nell’orinatoio di Duchamp, come nel taglio della tela di Fontana, come nel “barattolo” di P.Manzoni e nei sacchi bruciati di Burri.
  Questo è  per l’arte, che deborda nella provocazione; e la provocazione stessa diventa oggetto di mercato. Un mercato che la fa sua come merce e la paga come originalità, unicità della creazione, al di là dalla forma, dal gusto e dal buongusto.
  Perciò l’arte, la vecchia arte, prova a resistere alla tecnologia, almeno finché non prenderanno forma d’arte le avveniristiche creazioni tecnologiche secondo i gusti del nuovo spirito del tempo.
  Ma non è così per la poesia, che non ha più mercato, non può essere merce in un processo in cui la parola si conferma non riducibile a forme strane e irrazionali. Non per sua dignità, poiché è stata sempre mercificata nella storia. Ma perché affoga in un mare di parole senza più valore, in quanto  priva di un contenuto cui dare forma: non può essere più poema, né tragedia, né ecloga, né satira, né ditirambo, né ode, né carme.
  Non ha una sua materialità mercificabile. E’ immateriale e volatile nella sua consistenza formale e comunicativa. E’ solo spiritualità irriducibile alla manipolazione speculativa.
  E’ solo destinata a chiudersi in un suo bozzolo con la remota e aleatoria speranza che un giorno possa ancora mettere le ali per volare in un mondo meno dissonante di quello odierno.

 

 

lunedì 15 settembre 2014

                            LA POESIA  POLITICA E CIVILE
                                   LA BALLATA PER CASERIO
     In questi giorni mi è capitato di leggere  la “BALLATA PER CASERIO, composta da Pietro Gori, avvocato e poeta anarchico (Messina 1865 / Portoferraio 1911) in cinque ottave di endecasillabi a rime baciate, di cui riporto la prima e la penultima strofa qui di seguito.
   E’ evidente che qui l’intento del Poeta  non è quello dell’impiego di mezzi stilistici per la creazione di un’opera letteraria fine a se stessa, ma quello di toccare efficacemente l’emotività più  profonda   dell’animo popolare, per  risvegliare la coscienza di una dignità giudicata vilipesa dallo sfruttamento di classe e dalle costrizioni oppressive del potere.
   Si tratta,  quindi, di una composizione a carattere politico  e civile e, sicuramente, anche di carattere popolare.  La morte per ghigliottina di Sante Caserio è insomma l’occasione per diffondere e rinsaldare le speranze rivoluzionarie  degli anarchici, mediante la celebrazione dell’atto vindice  con cui  il ventenne Caserio uccide Carnot e si sacrifica, a sua volta,  affrontando la ghigliottina, per gli ideali libertari e di giustizia sociale dell’anarchismo.
                  I
Lavoratori a voi diretto è il canto
di questa mia canzon che sa di pianto
e che ricorda un baldo giovin forte
che per amor di voi sfidò la morte.
A te Caserio ardea nella pupilla
delle vendette umane la scintilla
ed alla plebe che lavora e geme
donasti ogni tuo affetto ogni tua speme……….
                        IV
Ma il dì s'appressa o bel ghigliottinato
che il tuo nome verrà purificato
quando sacre saran le vite umane
e diritto d'ognun la scienza e il pane.
Dormi, Caserio, entro la fredda terra
donde ruggire udrai la final guerra
la gran battaglia contro gli oppressori
la pugna tra sfruttati e sfruttatori…………….

    Oggi questi canti e ogni altra poesia politica e civile sono affievoliti, obnubilati e quasi scomparsi nella coscienza popolare. Come sono affievoliti o scomparsi gli ideali che li avevano ispirati.
   Il materialismo esasperato del sistema liberalborghese non ammette sviamenti o distrazioni dai suoi scopi essenziali: il denaro e la supremazia dell’individuo all’interno di una competizione che potremmo dire darwinistica.
   Non c’è posto per uno spirito di comunità, anzi cè la comunità stessa che si disgrega nella competizione selvaggia e parossistica. In questa temperie non  può nascere più una poesia politica e civile, la cui natura presuppone l’espressione dell’anima di una comunità, nella vita di un esaltante o comunque significativo momento storico.
   Oggi non può esservi più una poesia così intesa, se non come esercizio retorico individuale. Senza uno spirito di comunità l’azzardo della creazione di una composizione di poesia politico-civile da parte di un poeta può rimanere solo come voce nel deserto, solo come esercizio retorico: il poeta può lanciare il suo messaggio, ma non c’è una comunità che l’ascolta e lo fa proprio, poiché ci sono solo individui tesi alla competizione per un interesse materialistico, per il guadagno.
  Si vive in condizioni competitive permanenti, in cui ognuno prova  a contendere con l’altro, in cui chi si arricchisce emargina l’altro e tende a ridurlo a “scarto sociale”: lo ha detto anche papa Francesco, che recentemente ha esplicitamente condannato la “cultura dello scarto”. Una cultura dello scarto non può che disgregare  la comunità e liquefarne lo spirito; può anche  indurre  la società a produrre una miriadi di poeti, che però possono essere solo lettori di se stessi, e ridotti ad essere “voce nel deserto”.
  Si sta producendo una società in cui tutti sembrano monadi racchiuse nel bozzolo del proprio mondo senza finestre. Tutti aggrappati semmai a quella rete dell’etere, che con le sue tecnologie di un mondo  immateriale parrebbe incentivare una fitta  socializzazione, ma che è solo un mondo virtuale in  cui tutti, individualmente e isolatamente, si tengono uno per uno non come persone o cittadini, ma solo come figure irreali in un gioco di luci e di ombre
 Di certo questo non può essere un mondo per la poesia, tanto meno per la poesia politica e civile. 


sabato 21 giugno 2014

                                      POESIA  LIRICA
  La poesia lirica è il genere inteso ad esprimere sentimenti ed emozioni del poeta, la cui arte è tanto più alta ed efficace quanto più le sue forme di scrittura  hanno il potere di riecheggiare i contenuti nell’animo del lettore,  suscitandone sensazioni ed emozioni, scuotendone la  profonda e complessa interiorità, arricchendone l’esperienza intellettuale.
  Essa percorre tutta la storia della letteratura occidentale sin dai tempi di Archiloco e Saffo, rinnovandosi nelle forme e nei contenuti in corrispondenza al modificarsi delle tendenze e del gusto.
  Ciò che mi appare meraviglioso è il fatto che,  come altri nei secoli trascorsi, oggi noi ci emozioniamo profondamente alla lettura delle liriche più antiche, vecchie anche di millenni, quasi fossero sgorgate dallo spirito e dai sentimenti di poeti del nostro tempo. E in ciò  sta  la validità dell’universalità di quelle composizioni poetiche, che pure sono espressioni di tendenze diverse, di tempi e stili diversi, come quelle dei “Poetae novi” con Catullo, come quelle dei poeti del “Dolce stil novo” con Dante.
  Nelle condizioni in cui oggi viviamo, pare che quello della poesia lirica sia l’unico genere rimasto ai poeti ed ai loro lettori. Pare che non vi siano  più né spazi né margini per altri generi, quali il didascalico, l’epico, il popolare e tantomeno l’encomiastico. In questo nostro tempo così antipoetico, sembra che al poeta non sia rimasta altra possibilità che ripiegarsi sul proprio io per estrarsi l’anima e mostrarla a se stesso e ai lettori nella lacerante condizione esistenziale, nella sua solitudine e nell’affannosa ricerca di un suo rapporto solipsistico con l’universo e  l’infinito.
  Nell’affermazione di un lirismo essenziale e depurato dalle scorie di ogni altro genere poetico, il poeta odierno ha svuotato e annientato anche la forma; ha ridotto la forma alla parola, al suono della parola vuota come una conchiglia, al senso della parola purificata come in un lavacro e conseguentemente cristallizzata in una luce senza più senso, perduta nell’eccesso della metafora, inseguendo immagini così ardite da diventare quasi inconsistenti, evanescenti e inafferrabili.
  Nella lirica egli ha sperimentato nuove forme senza più forma: non più il carme, né l’ode, né la canzone e addirittura non più il sonetto, che per secoli pure è stato la forma perfetta della poesia lirica, hanno fornito una trama per la sua espressività; neanche più il verso: né l’endecasillabo, né il settenario, né il novenario, e tantomeno la rima che è stata bandita quasi del tutto, hanno più soddisfatto l’esigenza di un ordito preciso e appropriato su cui tessere l’espressione poetica come la musica sul rigo musicale.
  Il poeta si è voluto sentire sciolto e disciolto dal suono obbligato della rima, libero nel verso ritmico e ancor più nel verso libero; libero nel capriccio di stacchi di scrittura che non sono più strofe,  nel mescolare versi irregolari e regolari, qua e là con assonanze e consonanze, in un discorso poetico che potrebbe spesso assomigliare a un trenino a vapore che sbuffa e singhiozza in deragliamento su binari spezzati.
  Per contro il poeta si è buttato voracemente sulla metafora, facendone il vessillo di una nuova poesia. Una metafora fuori dall’usuale misura, esagerata, certamente lontana da quella dei marinisti, ma anche ad essa vicina  in qualche modo, proprio per l’esagerazione, l’esasperazione, l’azzardo oltre il limite delle forme. Si è buttato ad inseguire la propria interiorità con immagini stralunate che si rincorrono in un dire il cui senso tende a svanire nelle nebbie di parole tessute come al gioco dei dadi o dell’oca, ed in cui pare che la mente si prenda gioco di se stessa.
  Con quale funzione? La poesia lirica dei grandi, di Archiloco, di Saffo, di Catullo, di Dante, di Leopardi, esprime le emozioni e i sentimenti provati e vissuti nell’esperienza individuale, nel loro cuore, scrutandone i più significativi recessi, evocando la profondità del loro animo: ingentilivano però lo spirito ferino dei lettori e lo rendevano più nobile e più umano, elevandolo a ben più alte  visioni del mondo e a ben più alti ideali di vita. Una funzione, la loro, che non si è perduta neanche per un istante nei millenni, perché ancora oggi i loro versi riecheggiano nella nostra coscienza in tutta la loro totalità espressiva di senso, di suono, di emozione dell’animo.
  Al contrario, la poesia odierna si concentra sull’estetica della parola e con essa cerca di evocare la sensibilità estetica del lettore. Ma non va oltre  e si fa arida, sicché, isolata e solipsistica, è vox clamantis in deserto: l’uomo contemporaneo non si fa suo lettore, perché con essa non riesce a stabilire un vero e profondo rapporto; ognuno di essi, il poeta e il lettore, sta per suo conto, ed ambedue restano due monadi senza finestre comunicative. Il poeta scrive ma il lettore non legge; al più s’incuriosisce, poi depone il libro, lo dimentica e non lo riapre più. Da ciò nasce la mancanza di ogni interesse degli editori contemporanei per le opere di poesia.
  Forse all’origine di questo distacco, di questa separazione comunicativa, tra poeta e lettore,  c’è il sentimento del nostro tempo sempre più tecnologico. Però che cosa fa il poeta per interpretare lo spirito del tempo e superare l’isolamento in cui la sua voce inaridisce in un’eco che si rinchiude nel guscio di un estetismo narcisistico?

  Quale funzione egli svolge nel nostro momento storico così drammatico, perché l’uomo riprenda a comunicare sentimenti ed emozioni e non si chiuda nel silenzio del deserto di una  folla moltiplicata nelle concentrazioni delle megalopoli? Quale può essere il suo compito in mezzo alla folla iperattiva e resa folle da una competitività sempre più sorda e cieca, quando  l’uomo comunica sempre più solo nella freddezza di un mondo virtuale e la nostra realtà concreta  svapora senza più consistenza nelle interconnessioni della rete? Quale funzione ancora potrà svolgere la poesia lirica o semplicemente la poesia nel tempo della comunicazione del linguaggio informatico? Anzi sarebbe ancora possibile una poesia, se si perdessero  le sue forme e i suoi contenuti espressi nel passato, anche per effetto delle scritture nella rete?

martedì 20 maggio 2014


                    ANCORA SULLA POESIA POPOLARE
   Nell’attenzione alla poesia popolare, mi pare opportuno porre in rilievo l’importanza del suo ruolo nella società in cui essa si esprimeva in passato e da cui essa traeva la sua vitalità: una società prevalentemente agricola e pastorale, ma anche identificabile  negli strati più bassi e marginali delle popolazioni urbane.
   Una società che tra l’Ottocento e il Novecento si caratterizzava per le ristrettezze economiche e soprattutto per la povertà culturale, che, specialmente nell’Ottocento, era segnata dall’analfabetismo strumentale, cioè dall’ignoranza della scrittura, della lettura e del calcolo aritmetico.
   Una società che si circoscriveva all’ambiente di vita degli abitanti, al loro luogo di nascita, che era anche quello di lavoro, di vita e di morte di ciascuno; le cui conoscenze, quindi, erano limitate alle esperienze dirette, di vita vissuta, o tramandate oralmente da una generazione all’altra; e la cui circolazione d’idee e d’informazioni  ben di rado superava l’orizzonte del luogo d’esperienza. Anche una società, quindi, che si nutriva di leggende, di miti, di credenze, di superstizioni e di tradizioni secolari.
   Accanto alle prediche, ai tridui, alle novene, alle processioni delle confraternite, che animavano la vita comunitaria, la poesia  svolgeva davvero un ruolo di grande significato, sia come spettacolo e gioco nelle osterie,  nei giorni di  festa, sia come trasmissione d’informazioni e conoscenze, che venivano memorizzate facilmente con l’aiuto di ritmi, di rime e strofe, sia come mezzo di dirozzamento dei costumi per un’educazione della mente e dell’animo dei contadini e dei  pastori non di rado analfabeti.
    In questo quadro, la poesia  rispondeva, quindi, alla fame di conoscenze e di semplici  informazioni, con cui  il popolo poteva crescere anche nella sfera emotiva, affettiva e morale.
   Specialmente nell’Ottocento, l’informazione era facilitata da piccole e grosse tipografie, che stampavano libriccini e foglietti volanti con su poemetti e narrazioni in versi per cantastorie, che li diffondevano specialmente nelle feste, nei mercati e nelle fiere.
  Generalmente erano composizioni create da poeti popolari ed anche da autori avveduti; da poeti semianalfabeti o addirittura analfabeti che, per istinto, per doti assolutamente naturali non di rado raggiungevano sprazzi di effettiva arte poetica.
   Per questi ultimi mi riferisco, per esemplificare, all’analfabeta e pecoraia dell’Alto Pistoiese Beatrice Bugelli e al romano macellaio e ceraiolo  Pietro Capanna, più noto come Sor Capanna, che divenne quasi cieco per una vampata della caldaia in cui si scioglieva la cera, per cui, non potendo più lavorare, si fece cantastorie.
  Della Beatrice Bugelli ne ho già parlato, riportandone due ottave improvvisate nel suo canto a braccio o in un contrasto poetico. Le avevo trascritte come esempio della sua sensibilità lirica e della sua abilità compositiva. Qui invece voglio sottolinearne la capacità nell’uso dell’artificio retorico, con cui si porta alle soglie della poesia d’arte superando i limiti di quella popolare.  
   Nella prima di quelle due ottave, l’uso sapientemente retorico delle immagini ripetute e variate con cui compara il suo dolore interiore  a quello dello schiavo che porta la catena al braccio, poi al collo e poi ancora al piede, per concludere, intendendo quella catena: “E io la porto al cor che niun la vede”.
    La seconda ottava, ha immagini sapientemente allusive e così retoricamente ben  poste  con l’uso di antonimie (“Chi m’ha ferito m’abbia a medicare”) che sembra di leggere una poesia di uno dei migliori marinisti, senza però gli eccessi del marinismo.
  Diversa è invece l’inventiva di Pietro Capanna, poiché espressa nell’originalità della  struttura compositiva,  di cui egli si avvale per esprimere lo spirito del Rugantino romanesco, la satira e lo sberleffo popolaresco dei rioni più tipicamente tradizionali. Struttura che ha dato luogo a una nuova maniera poetica, cioè alla cosiddetta maniera “der sor Capanna”, praticata da altri autori di poesia popolare, fra cui anche Petrolini.  
    Sono composizioni che vengono in genere definite come stornelli, poiché sono create a braccio e cantate con l’accompagnamento della chitarra, ma che differiscono dagli stornelli sia nel canto che nella struttura, composta come segue:
una quartina in endecasillabi a rima alternata, seguita da due ottonari a rima baciata, cui seguono, legati tra loro in rima baciata, un quinario e poi ancora un endecasillabo in chiusura. Nel canto, questi due ultimi versi vengono ripetuti.  Esemplifico qui di seguito riportando una composizione che pare sia opera di Petrolini:

Appena cominciò l'inno reale
La gente ner teatro s'arzò in piede;
Sortanto Giovannino lo spezziale
Essendo un sovversivo restò a sede.
Tutti dissero "A la porta!",
Lui rispose "Che me'mporta?
Me fa piacere:
Mantengo li principi in der sedere.


Viene ora da domandarsi se è ancora possibile una poesia popolare nel nostro tempo; più precisamente se ancora oggi è possibile una funzione della poesia popolare.
  Intanto dobbiamo constatare che ciechi e disgraziati non si trovano più nelle condizioni economiche pietose di un tempo. Comunque né loro né chiunque altro, in tempi di internet, potrebbero più avere  un loro specifico ruolo di mediatori nella diffusione e nella circolazione della produzione poetica popolare. Né vi sono più bovari e pecorai e contadini e popolani interessati a leggere e cantare e ascoltare storie di fatti tragici e mirabolanti come nel passato.
   Oltre ai mezzi di produzione, con le nuove tecnologie sono cambiati i mezzi di diffusione e circolazione delle informazioni e delle idee; ed i nuovi mezzi e le nuove tecnologie hanno cambiato la società, che si è articolata e strutturata ben diversamente dal passato con l’urbanizzazione, la globalizzazione e la pervasività della strumentazione elettronica, specialmente nell’informazione.  
   A che cosa può servire più oggi la poesia popolare? Con i mezzi sono cambiati, oltre alle modalità espressive, anche  gli interessi e i contenuti,  per cui la classe popolare oggi crea i suoi miti, i suoi eroi e i suoi cantori in altri campi, specialmente nello sport e nella televisione, in cui trova facilitata la soddisfazione dei suoi sogni e delle sue fantasie. Occorre solo prenderne atto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

martedì 13 maggio 2014


                                        POESIA POPOLARE
   Non è facile definire ciò che s’intende per poesia popolare. Nell’ arte plastico-visiva e nella musica, vari generi hanno trovato la  definizione sotto varie diciture che indicano la loro qualità di popolare. Come nel caso di certi fenomeni qualificati semplicemente  “pop”, oppure come “pop music” o come “pop jazz”, mentre sembra sfuggire ormai chiaramente ad una qualificazione davvero di arte popolare la cosiddetta “pop art”.
   D’altra parte sembrerebbe più facile parlare di poesia popolare riguardo al passato, che non all’oggi, quando ormai la poesia tutta sembra non avere più alcun rilievo presso il popolo, ridotta com’è  ad un fatto del tutto personale ed individualistico: davvero ben pochi leggono i poeti, davvero ben pochi ricercano emozioni nella poesia odierna.
    Molto è stato determinato dalla progressiva e rapida innovazione e diffusione dei mezzi di comunicazione di massa. Infatti  in questi mezzi il popolo ha trovato più stimoli per la sua sensibilità verso forme comunicative ed espressive più dirette ed immediate, che non passano attraverso la penna e la rotativa.
    Non possiamo dimenticare in proposito che la pittura nelle chiese e la poesia  per i ceti poveri scarsamente o non affatto alfabetizzati, nel passato, sono stati gli strumenti comunicativi più efficaci per l’educazione del popolo.
   In poesia, la funzione delle strofe e delle rime non aveva solo valore intrinseco nella struttura poetica: strofe e rime facilitavano anche fortemente la memorizzazione del testo poetico anche in chi aveva scarsa dimestichezza con la lettura e la scrittura.
   Forse  questa facilità di memorizzazione e la disponibilità al canto hanno sollecitato anche gli analfabeti delle campagne ad acquisire cognizioni e sensibilità verso forme culturali che ne hanno ingentilito e nobilitato l’animo. D’altra parte ne hanno sollecitato la capacità creativa, per cui essi stessi sono diventati improvvisatori ed anche scrittori, seppur sempre a livello popolare.
   Di questi improvvisatori e scrittori, appartenenti al popolo e di cultura assolutamente popolare, se ne potrebbe davvero citare  un numero grandissimo, anche di significativi, a cominciare dalla pastora analfabeta Beatrice Bugelli, detta Beatrice del Pian degli Ontani, che suscitò persino l’interesse di molti letterati, a cominciare dal Tommaseo, dal Pascoli, dal D’Azeglio e tanti altri; per proseguire con Gian Domenico Peri, poeta dell’Amiata, vissuto nel Seicento e diventato addirittura poeta di corte del Duca Cosimo II; per proseguire ancora con Angelo Pii, detto il Poetino, pure dell’Amiata, che compose un poema in ottava rima di dodici canti in cui narrava le vicende di Davide Lazzaretti, detto il profeta dell’Amiata; per proseguire ancora con Giuseppe Moroni, detto il Niccheri, il cui poemetto “Pia de’ Tolomei” ebbe tanto successo che l’editore Salani ne vendette 70.000 copie (entità ingentissima per l’Ottocento) e le cui ottave ancora nella mia gioventù io sentivo cantare dai bovari  del mio paese.
  Accanto a questo filone di cantori e poeti popolari non va trascurato il filone della poesia popolare degli autori e cantastorie orbi, che si accompagnavano con vari strumenti musicali, soprattutto con la chitarra. Di solito questi erano anche cantautori e cantastorie  ambulanti che si spostavano da luogo a luogo, da paese a paese, che cantavano storie di fatti eccezionali, drammatici, tragici, non solo per raccogliere offerte ma anche per vendere i testi cantati e stampati da notissime case editrici del tempo, quali la Campi di Foligno, la Salani di Firenze, la tipografia Reggiolese.
  Per esemplificare e sottolineare qui il valore di tanti poeti popolari, mi piace trascrivere qui un saggio della sensibilità lirica e dell’abilità compositiva  dell’improvvisatrice analfabeta e pecoraia Beatrice Bugelli:
Se tu sapessi la vita ch’io faccio,
Non la farebbe il Turco alla catena.
E ’l Turco porta la catena al braccio
E io la porto al cor per maggior pena.
E ’l Turco porta la catena al collo,
E io la porto al cor, ch’è maggior doglio.
E ’l Turco porta la catena al piede,
E io la porto al cor che niun la vede.

Quella finestra, fatta a colonnello,
Quanto sospiri m’ha fatto gettare!
Tu m’hai ferito il cor con un coltello,
Non trovo chi mi voglia medicare.
E ’l medico m’ha messo a tal partito,
Che m’abbia a medicar chi m’ha ferito.
E ’l medico m’ha messo a un partito tale
Chi m’ha ferito m’abbia a medicare.

     Voglio solo sottolineare come in queste due ottave improvvisate risalta il linguaggio popolare del parlare toscano, spoglio delle raffinatezze che lo contraddistinguono dal linguaggio letterario; e come nello stesso tempo sgorga limpido il canto che esprime l’impeto dei sentimenti e delle emozioni  dell’animo di una donna: davvero una composizione ricca di fascino poetico. Ma la mia più grossa meraviglia è che questo fascino l’ha creato un’analfabeta!

 

 

 

 

sabato 19 aprile 2014


         ANCORA SULLA POESIA ALLEGORICA  E LA BEATRICE DANTESCA  
   Dunque l’opera dantesca è espressione di una complessa architettura allegorica, anche se nella Commedia episodi come quelli di Francesca, del Conte Ugolino, di Pier delle Vigne, per dirne solo alcuni, sono solo espliciti quadri di profonda umanità e non fanno parte di alcun linguaggio esoterico-allegorico.
   Della complessa architettura simbolica, qui a me pare sufficiente accennare brevemente al linguaggio dei numeri, limitatamente alla Vita Nova e alla Commedia, cioè alle opere in cui emerge la figura di Beatrice, a cominciare dalla domanda: può essere reale una donna, la cui figura è pensata tutta in relazione al numero nove?
   Di questo numero nove, che appare sin dal Cap. II della Vita Nova in relazione alla figura di Beatrice, Dante stesso, dopo la morte di Beatrice, si accinge a sottolinearne l’importanza e nel Cap. XXVIII scrive: “Tuttavia, però che molte volte lo numero del nove ha preso luogo tra le parole dinanzi, onde pare che sia non sanza ragione, e nella sua partita (morte) cotale numero pare che avesse molto luogo, convenesi di dire quindi alcuna cosa, acciò che  pare  al proposito convenirsi”.
   E poiché la Vita Nova oltre che opera allegorica appare anche didascalica, comunque rivolta a “chi sa”, cioè ai Fedeli d’Amore, nel Cap. XXIX Dante mostra come il senso del nove “secondo Tolomeo e secondo la cristiana veritade” personifichi Beatrice, anzi, dice “ più sottilmente pensando…… questo numero fue ella medesima; per similitudine dico, e ciò intendo così”. Secondo questa affermazione, quindi, Beatrice e il significato simbolico del numero nove sono la medesima cosa. Poi spiega: “Lo numero del tre è la radice del nove…. Siccome vedemo manifestamente che tre via tre fa nove” (cioè, tre al quadrato fa nove).
Nella Commedia il numero tre si fa simbolo portante di tutta l’architettura dell’opera. Tre endecasillabi costituiscono ciascuna strofa (terzina incatenata);  trentatré canti (il tre ripetuto in coppia, o numero di gemelli come detto nel gioco del lotto) per ogni cantica del poema; tre cantiche compongono il poema.
   Il numero (tre – nove – trentatré) è quello che di più appariscente costituisce il linguaggio simbolico ed esoterico della Vita Nova e della Commedia. Un linguaggio allegorico inteso a comunicare  un sapere segreto a chi quel codice  simbolico conosce, giacché in una società chiusa, autoritaria, violenta, come quella che anche Fo illustra efficacemente nel suo Mistero Buffo, una libera circolazione delle idee è quanto meno impensabile. Ci voleva poco a finire arso vivo come fra’ Dolcino, a finire in una di quelle terribili torture destinate ai cosiddetti eretici, la cui manifestazione di pensiero diverso e libero poteva minacciare il sistema di potere ben più di una compagnia di ventura assoldata da un signore o da un vescovo di quel tempo.
   Noi oggi non ci rendiamo conto di quanto fosse chiusa, rigida e crudele la struttura sociale, culturale e politica nel tempo di Dante. Né ci rendiamo facilmente conto dell’opportunità, se non della necessità, del ricorso all’allegoria nella poesia di quel tempo.
  Infatti da più di qualche secolo noi oggi siamo in una società aperta, in cui la circolazione delle idee non solo è ammessa e garantita, ma ne costituisce l’arricchimento e ne connota il carattere.      Proprio per questa nostra libertà di parola e di pensiero, essendo divenuto inutile, il linguaggio allegorico sarebbe avvertito come fastidioso. Sicché per opportunità dei tempi, oggi la poesia allegorica è scomparsa, certamente senza rimpianti.

 

 

mercoledì 9 aprile 2014

mercoledì 9 aprile 2014

             LA POESIA ALLEGORICA E LA BEATRICE DANTESCA  
  Nella letteratura, il lavorio di molti critici nei secoli fa non di rado sorridere. .Non  parlo del lavorio per chiarire pensieri e commentare opere con un proprio vocabolario appropriato, ma di quello del ricercare puntigliosamente, fra le righe e le parole degli autori, qualcosa che gli autori medesimi non vi hanno messo e, anzi, di inventare più di qualche cosa che gli autori non hanno inteso dire.
  E’ il caso del lavorio di molti critici nei confronti di Beatrice, la creatura poetica di Dante ed anche, forse in minor misura, di Laura, creatura poetica del Petrarca.
  Hanno voluto identificare per forza  donne reali con quel nome, quando donne reali nelle opere poetiche di cui si parla non ci sono. Sanno bene che nelle opere dantesche ci sono allegorie, ma non ammettono che tutta l’opera di Dante è allegorica, compresa, quindi, la figura di Beatrice, che, come dice il Poeta nella Vita Nova, cap.II “La quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare”. In proposito è bene subito notare che “fu chiamata da molti” Beatrice, non da tutti, quindi, ma  solo da quelli che conoscevano il codice di comunicazione, cioè dai Fedeli d’Amore.
   Riguardo a Beatrice, è vero che cominciò il Boccaccio a volerla identificare con la Portinari, proprio il Boccaccio che tanto critico non è, quanto poeta e scrittore; evidentemente però volle attaccarsi anche lui per primo la malattia dei critici, quella d’inventare ciò che non c’è nelle opere commentate. Ma va che il Boccaccio non l’abbia fatto apposta!
  A riguardo di Beatrice, basterebbe tener presente la complessa personalità culturale di Dante, che non era solo quella del poeta o del letterato.
  Si potrebbe dire che Dante poteva essere egli stesso quasi un’enciclopedia incarnata e personalizzata, una “summa” del sapere del suo tempo; e che egli non  solo sapeva utilizzare al massimo dell’efficacia come suoi personali strumenti il pensiero aristotelico-tomista e il sistema tolemaico,  ma certamente era anche padrone di complessi sistemi simbolici  ed esoterici, le cui tracce potrebbero essere riferibili a saperi sotterranei, come ad esempio a quelli dei Templari e a quelli degli gnostici. 
   D’altra parte i saperi segreti hanno sempre avuto corso sotterraneamente nelle società autoritarie e chiuse di ogni tempo, figuriamoci al tempo delle eresie, dei roghi, delle streghe, dei maghi. Come Dante avrebbe potuto esprimere e comunicare saperi e tesi divergenti in quel suo tempo così ricco di fervori religiosi e di eresie ferocemente condannate, quando si mandavano al rogo i Templari, fra’ Dolcino e chiunque accusato di magia e stregoneria,  se non attraverso un complesso linguaggio simbolico organizzato e finalizzato alla circolazione delle idee verso e tra  “chi sa”, cioè verso e dentro una cerchia  ristretta di adepti in grado di riconoscere ed interpretarne correttamente  il codice di comunicazione? Dante stesso, nel IX canto dell’Inferno, scrive: “ O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,/ mirate la dottrina che s’asconde/ sotto ‘l velame de li versi strani”.
  Sono molti ormai che hanno messo in luce l’architettura  allegorica delle opere  dantesche, dell’irrealtà di Beatrice e della sua metafora. Eppure si continua ad insegnare nelle scuole la favola di un’ignota Beatrice Portinari per non voler scoprire il senso del “velame de li versi strani” che sta a difesa tuttora  di secolari incrostazioni di “potere”, difficile ancora oggi da scuotere.
    Infatti nelle opere dantesche Beatrice è solo una delle figure simboliche, fra quelle di Virgilio, Lucia, S. Bernardo, l’Aquila, la Rosa, ecc. Ne cominciarono a parlare dopo tanti secoli Gabriele Rossetti,  pronto a riconoscerne i linguaggi simbolici in quanto rosacrociano, poi Foscolo, Pascoli, Luigi Valli, René Guenon e via via tanti altri.
   Se ne proseguì a parlare a mano a mano che certi “poteri” si affievolivano nel tempo (ancora nel Seicento fra’ Tommaso Campanella era accusato di tenere nascosto un  diavoletto nell’unghia d’un suo mignolo!) mentre altri poteri emergevano dalla storia e trionfavano sugli antichi, specialmente con la Dichiarazione d’Indipendenza dell’America e la Rivoluzione Francese. Ma a parlarne furono voci pur sempre soffocate, tenute ai margini della cosiddetta ufficialità, tanto da  mantenere  soprattutto nelle scuole la puerile interpretazione, che indica nella  Beatrice dantesca la carnale Beatrice Portinari: segno che non tutte le incrostazioni dei vecchi “poteri” che affondano la radici nei sistemi del pensiero medioevale sono state rimosse dalle strutture politiche e culturali della nostra società.

 

 

 

 

 

venerdì 4 aprile 2014


 

Proseguo qui la pubblicazione del mio
VERSI ORTICANTI nella parte intitolata
POPOLO

Fior de cicoria,
Se ripete la storia e mai non varia,
Perché il popolo è senza la memoria.

Fior d’acetosella,
Il popolo me pare solo folla,
Che ce paga, ce grida e ce sbarella.

Fiore de cesta,
Il tutto non se sa quanto ce costa,
Ma il popolo ce paga e ce fa festa
Fiore d’aconito,
Se il conformismo dentro ti è ingenito,
Caro popolo mio ce resto attonito!
Fior d’ananase,
Per ricercar le locuzioni astruse
Il poeta ce va fore de fase.

Fiore de lino,                                      
Se parla mo del popolo sovrano,
E ce lo fanno credere persino!

Fior de lupino,
Il popolo sarà pure sovrano,
Ma dietro altri ce fanno capolino.

Fiore de fieno,
Perché se questo popolo è sovrano,
C’è chi se lo cavalca a palafreno?

Fiore de fratta,
Il poeta cucina l’aria fritta,
Condisce versi in prosa rarefatta.

 

 

 

venerdì 21 marzo 2014


                   LA POESIA OCCASIONALE 
                           E LA MORTE DI BARTOLOMEO PINELLI
    Uno dei tanti generi poetici del passato è quello della poesia occasionale, spesso riconoscibile anche come genere celebrativo, encomiastico ed anche dedicatorio. E’ un genere che si potrebbe esemplificare con una miriade di poesie, ma certamente uno dei componimenti poeticamente più alti di questo genere è I SEPOLCRI, scritto dal Foscolo in occasione della promulgazione  della legge napoleonica sull’istituzione dei cimiteri e sull’obbligo delle sepolture fuori dai centri abitati.    Me ne viene però sotto gli occhi, fra i tanti da lui composti di questo genere, un sonetto che il Belli scrisse in occasione della morte del famoso incisore trasteverino Bartolomeo Pinelli (er zor Meo), vissuto appena 54 anni, avvenuta il primo aprile del 1835. E poiché ne ricorre l’anniversario il prossimo primo aprile, lo trascrivo qui di seguito anche in suo omaggio.     Nella prima quartina, il Belli procede all’individuazione del personaggio, tratteggiandone i caratteri salienti: Pinelli, il pittore di Trastevere, quello che portava i capelli lunghi sul viso (grugno) col pizzetto di peli sopra il mento ( mosca ar barbozzale) è morto (crepato) per l’ultimo fiasco (bucale) di vino.   Nella seconda quartina, riferisce della visita del medico che, guardando le feci nel vaso da notte (in n’er pitale) si mostra prima dubbioso con l’espressione del viso (cominciò a storce) presagendone la fine, poi disse di chiamare quelli della confraternita (intimate li Fratelli) per preparare il rito funebre.     Nella prima terzina, dice che Pinelli era morto nella miseria, con tre spiccioli nelle tasche (con tre pavoli in zaccoccia) a causa delle bevute in allegria con i compagni (de fa bisboccia) nell’osteria Gabbionaccio.     Nella seconda terzina ed ultima parte, il Belli mette in bocca al popolano narratore l’ansia per la sorte dell’anima del Pinelli, noto per l’astensione ostinata dai sacramenti, e che aveva rifiutato la confessione in punto di morte.
                      LA MORTE DER ZOR MEO
Sì, quello che portava li capelli
Giù p’er grugno e la mosca ar barbozzale,
Er pittor de Trastevere, Pinelli,
E’ crepato pe’ causa d’un bucale.
V’abbasti questo, ch’er dottor Mucchielli,
Vista ch’ebbe la merda in ner pitale,
Cominciò a storce e a masticalla male,
Eppoi disse: Intimate li Fratelli.

Che aveva da lassà? Pe’ fa bisboccia
Ner Gabbionaccio de padron Torrone,
E’ morto con tre pavoli in zaccoccia.
 
E l’anima? Era già scommunicato,
Ha chiuso l’occhi senza confessione....
Cosa ne dite?Se sarà sarvato?
    Poesia scritta per la morte di Bartolomeo Pinelli; quindi poesia occasionale del Belli, i sonetti del quale, in verità, sono quasi tutti occasionali, ispirati dagli avvenimenti quotidiani della vita romana.      Come erano occasionali molte poesie dei grandi poeti, si pensi al CINQUE MAGGIO del Manzoni, per esempio, e come erano i tanti versi di poeti e poetastri composti per ogni occasione, dal compleanno alle nozze, e per ogni altro avvenimento, anche di morte, come per il carme del Manzoni IN MORTE DI CARLO IMBONATI. Come prima erano occasionali le composizioni dei cantastorie e specialmente dei poeti dialettali, quasi sempre nate dalla vita quotidiana ed anche dalla tragicità della cronaca.    Ancora i poeti dialettali contemporanei traggono la loro ispirazione dall’occasionalità, dagli accadimenti della vita quotidiana. Ma poi sono sopravvenuti i quotidiani ad informare e a raccontare gli accadimenti, sono venute le macchine fotografiche e le cineprese a rappresentare dal vivo ciò che accade; ed oggi ci sono le fotocamere dei cellulari, c’è soprattutto il villaggio globale del linguaggio elettronico.     Come si può più pensare ad una poesia occasionale? Non s’incontra più facilmente una poesia occasionale; e laddove accada che se ne trovi, si vede a prima lettura che è occasionale solo apparentemente, perché subito affiora il suo carattere vero, quello lirico e intimistico, quello per cui il poeta parla solo di se stesso, teso a cogliere le proprie emozioni e i propri personali e intimi turbamenti. La poesia occasionale, come la maggior parte degli altri generi, è quantomeno lontana e affievolita, se non addirittura scomparsa del tutto.

giovedì 13 marzo 2014


                  ANCORA SULLA POESIA SATIRICA
   Satira: da satyrus o da satura? Da satiro o da piatto di varie vivande? Strana ambiguità dell’origine di questa parola. E della satira stessa.     Vocabolari e storiografia letteraria sono concordi: la satira trae il suo nome da satura, cioè da un piatto di varie vivande offerto agli dei, in quanto composizione di forme e contenuti variabili, di versi e prosa.   D’altra parte, però, basterebbe non trascurare quello che scrivono gli storici dell’antichità, ad esempio Dionisio di Alicarnasso. Si coglierebbe facilmente la parentela della satira con le danze e i canti dei romani nei primi secoli, specialmente con le danze sicinnide  e i canti fescennini, quindi con ciò che è indicato da satyrus.    Dionisio di Alicarnasso nella sua Storia di Roma arcaica (siamo nel V sec. A.C.) nel Cap. VII al punto 72.10, a proposito delle processioni, scrive: “Infatti ai danzatori armati facevano seguito i danzatori travestiti da satiri, che imitavano le danze sicinnide….. coloro che rappresentavano i satiri avevano  perizomi e pelli di capre e, sul capo, irte criniere e altre simili cose. Costoro motteggiavano e imitavano i movimenti solenni, volgendoli in ridicolo”.    Poi prosegue al punto 72.11: “ Anche l’ingresso dei cortei trionfali dimostra che il motteggio e lo scherzo satiresco sono per i Romani un’antica usanza locale. Infatti è consentito a quelli che partecipano ai trionfi di schernire e motteggiare i personaggi in vista, fossero anche generali”.  E ancora: “….. In un primo tempo, i soldati facevano parodie in prosa, mentre ora cantano versi improvvisati”. Al punto 72.12 aggiunge: “ Ed io vidi anche durante i funerali di uomini illustri, insieme con altri, in processione, gruppi di danzatori, travestiti da satiri, che precedevano il feretro e che si muovevano al ritmo della sicinnide, soprattutto durante le esequie dei ricchi”.   Sappiamo che questa tradizione popolare, diciamo anche plebea, giunge fino alle soglie dell’Impero, quando i legionari nei cortei trionfali di Cesare cantavano: “Ecco, ora trionfa Cesare che sottomise le Gallie e non trionfa Nicomede che mise sotto Cesare”.    Se si raccogliessero e raccordassero i verbi “schernire, motteggiare, facevano parodie” di cui parla Dionisio, si vedrebbe bene che questi sono i verbi propri di quella che poi sarà la satira nel suo manifestarsi nella storia letteraria. Si vedrebbe bene che, muovendo dai modi espressivi di coloro che, coperti di pelli di capre, rappresentavano i satiri, i  poeti e scrittori dei secoli seguenti realizzeranno opere letterarie non solo con linguaggio di scherno e motteggio, ma con linguaggio di raffinata ironia, di sarcasmo, come con Marziale,  di critica e denuncia, e ancora di linguaggio beffardo, caustico, mordace, fino anche alla violenta fustigazione morale, come con Giovenale.  Ma tant’è! Gli storiografi e i letterati forse non vogliono che sia confusa la forma letteraria e poetica con lo schiamazzo del volgo, non vogliono riconoscersi nell’originaria parentela con la rozza improvvisazione popolaresca e plebea. Essi badano alla forma che non può nascere, secondo loro, per dirozzamento e depurazione di un vile sentire, ma può nascere come stile solo dalla genialità di menti che  distillano la forma  da un piatto di vivande, da un minestrone, destinato agli dei e perciò materia di nobile espressione.   Forse con la psicoanalisi si potrebbe dire che il complesso di superiorità nei confronti del volgo conduce sicuramente a distorsioni strabiche anche nella realtà della storia. Eppure proprio essi, i letterati ed anche gli storiografi, dovrebbero sapere meglio degli altri che la lingua tanto più fiorisce ed è nobile  quanto più essa si origina dal dialetto e di questo si nutre.    Dobbiamo malinconicamente, però, concludere che oggi si è ritornati al punto di origine. Si è conclusa la parabola della satira, sicché essa quasi scompare dalla letteratura, per ritrovare se stessa nella comicità rozza e grassa, buona di nuovo per la plebe, non più nei cortei e nelle piazze, ma in certi frequenti spettacoli televisivi e nelle sempre più rare vignette che appaiono ancora in qualche pagina di giornale. Così ci coglie la tristezza per come vanno le cose nel mondo.

 

 

 

 

 

giovedì 6 marzo 2014


Pubblico qui di seguito altri stornelli della
mia raccolta  VERSI ORTICANTI edita da
Youcanprint.

         POPOLO                                               
Fior de ceraso,
Ogni cosa se piglia come d’uso
E il popolo se piglia per il naso.

Fiore odoroso,
Il popolo pigliato per il naso
Ce piglia tanto gusto ch’è gioioso.

Fior de cipolle,
A sta folla ce ortìco, ma alla pelle
Nemmanco ce se formano due bolle.

Rosa  sfiorita,
Pure se io l’ortìco qui, il poeta
Ci/azzarda una metafora marcita.                              
                                                                                     
Fioretto bello,                                                    
C’è il sofisma, la logica, il cavillo                                    
Per imbrogliare al popolo il cervello.

Fiore de pianta,
Il cobra con lo zufolo s’affronta,                            
Con le parole il popolo s’incanta.      

Fior de cotogna,
Il popolo ce soffre e ce mugugna,
Se la canta e se gratta poi la rogna.

Fiore d’acanto,
Il poeta ce smoccica compunto,
E ce s’inventa lacrime de pianto.