OMAGGIO A
DANTE: 1321 – 2021
LA POESIA
COME ARMA VENDICATIVA
“Esta
selva selvaggia aspra e forte/ Che nel pensier rinnova la paura” (Inf.Canto
I) è la trappola di calunnie
lanciate contro Dante per eliminarlo dalla vita politica di Firenze, in quanto
uno dei sei priori e, dunque, uno del gruppo dirigente di parte bianca del
governo della città. Coloro che hanno ordito la trappola con la conseguente
condanna sono i tre nemici personificati nelle tre fiere: Bonifacio VIII, i
fiorentini e Carlo di Valois.
Dal giorno in cui seppe di essere
condannato all’esilio, Dante dovette peregrinare per varie corti d’Italia ad elemosinare
un asilo politico ed esistenziale, e a “conoscere quanto sa di sale / lo
pane altrui e quanto è duro calle/ lo scendere e il salir per altrui scale”
(Par. Canto XVII: con la conseguenza di una carriera politica distrutta,
di una vita familiare sconvolta, di un’esistenza ormai resa tormentata a fronte
di un futuro precario e minaccioso.
Un uomo
dalla statura morale e culturale di Dante, così calunniato ed offeso, non può
non lottare per una rivalsa, non può non reagire fino a sviluppare momenti di
spirito di vendetta nei confronti di coloro che gli hanno tolto il diritto di
agire per il bene di Firenze, che lo hanno allontanato dalle gioie della casa e
della famiglia e che lo hanno bandito dalla patria.
Ma
Dante è solo, non ha un esercito e non può che sperare nell’avvento del Veltro
e nell’intervento dell’imperatore Arrigo VII. Ha però un’arma, una sola arma
incruenta ma potente, la poesia, che può brandire come strumento di propaganda
nel suo tempo e come spada da affondare dentro la storia per agire
vendicativamente nell’eterna posterità.
Con i
suoi versi affilati come lame, lancia la sua vendetta contro Bonifacio VIII nel
diciannovesimo canto in cui tratta della pena del contrappasso dei simoniaci.
Là interroga papa Nicolò III Orsini, che fa rispondere con involontario
sarcasmo: ”Se’ tu già costì ritto/ Se’ tu già costì ritto Bonifazio? / Di
molti anni mi mentì lo scritto. / Se? tu tosto di quell’aver sazio// Per lo
qual non temesti torre a inganno/ La bella donna, e poi di farne strazio?”
E’ una
situazione comica, in cui Dante fa rimproverare Bonifacio VIII da Nicolò III, che con sarcastica impudenza gli
rinfaccia gli stessi suoi peccati, che poi sono quelli propri della lupa nella
selva oscura, “se’ tu tosto di
quell’aver sazio…”, cioè la cupidigia dell’ avere, per cui si ha “più
fame che pria” (Inf. Canto I).
In
quella situazione, Dante verso il suo nemico Bonifacio non lancia invettive,
come fa Iacopone da Todi nelle sue Laudi, che lo colpisce con un linguaggio
così aspro che sa di colpi di scure e di clava; ma nei suoi versi pare che si
diverta con colpi di fioretto, con un linguaggio che irride e insieme
sbeffeggia Bonifacio VIII: potrei dire con una vendetta servita fredda, che si
prolungherà nella storia, fino a noi e oltre noi attuali lettori.
A
questo mira Dante, cioè a vendicarsi col distruggere l’immagine di Bonifacio
VIII macchiandone la fama nella storia. Bonifacio VIII ha sconvolto la vita di
Dante nella sua esistenza; Dante lo ripaga d’altra moneta ben più solida,
perché ne distrugge la fama, cioè nella dimensione che va ben oltre l’esistenza
e a cui i personaggi danteschi si richiamano con un sentimento così intenso che
essa sembra sia un effettivo prolungamento della vita terrena.
E Dante
non lascia la presa con l’episodio di Niccolò III e i simoniaci. Ci ritorna nel
ventisettesimo Canto con l’episodio di Guido da Montefeltro, condannato nella
bolgia in cui stanno coloro che in vita consigliarono altri ad agire con frode.
E
Dante qui non dà più di fioretto sarcastico, va dritto con colpi d’ascia contro
Bonifacio VIII. Fa dire a Guido: “Se non fosse il gran prete a cui mal
prenda!/ Che mi rimise nelle prime colpe”(Canto XXVII, v.70-71).
Infatti, BonifacioVIII, maligno ingannatore a sua volta, gli promise
l’assoluzione preventiva, sostituendo il suo come vicario di Dio, al giudizio
di Dio, e lo convinse a suggerirgli l’inganno con cui distruggere Palestrina ed
abbattere i Colonna suoi nemici.
E poi fa
soggiungere a Guido: Dopo che io volevo emendarmi dalle colpe del passato,
facendomi francescano, venne da me lui, “il principe dei farisei” (Canto
XXVII- v. 85) che mi fece cadere di nuovo nelle antiche mie colpe.
Dunque,
qui, con “il gran prete a cui mal prenda!” e con “il principe de’
farisei” siamo ai modi delle invettive di Iacopone. Ma Dante si riprende
subito e torna al fioretto dell’ironia, al sarcasmo, facendo dire al diavolo
che aveva preso Guido, dopo una lezioncina di logica sul principio di non
contraddizione e con maligno sarcasmo, “Tu non pensavi ch’io loico fossi” Canto
XXVII-v123).
Così Dante si vendica della “lupa”, di BonifacioVIII, precipitandolo all’inferno già prima della sua morte: a parte l’inferno, oggi sono i versi di Dante che dannano il suo nome, è la sua cattiva fama che i versi della Commedia fissano nella memoria dei posteri di tutto il tempo posteriore alla composizione della Commedia, dentro la storia. E questa è la vendetta maggiore, perché l’uomo cerca di sopravvivere a se stesso nella fama, nel ricordo di sé presso coloro che vivranno: Ed ora Bonifacio VIII non potrà mai più essere ricordato come papa cristiano nell’animo, ma sarà ricordato per sempre dai posteri come assetato di potere, simoniaco, come tessitore d’intrighi, e soprattutto ingannatore di uomini.