domenica 28 luglio 2013

                                IL ROMANESCO  POCO  ROMANESCO DI TRILUSSA
   Potrebbe apparire sorprendente non che Trilussa non si sia laureato, ma che non abbia neanche compiuto un corso regolare di studi. 
   D’altronde  abbiamo esempi luminosi al riguardo: il Belli dovette interrompere i suoi  studi a livello di computista, Croce non trovò mai il tempo per una laurea, Mario Rigoni Stern – autore di Il sergente nella neve - si fermò al “terzo avviamento”, Guglielmo Marconi e T. A. Edison non seguirono corsi regolari di studi, ecc. ecc.
   Eppure, non solo  Carlo Alberto Salustri cominciò a pubblicare, sul Rugantino di Giggi Zanazzo, proprio con lo pseudonimo di Trilussa,  le poesie e con quello di Marco Pepe  gli articoli di prosa; ma lo fece giovanissimo e anche con una felicissima intuizione: utilizzare non un romanesco autentico come quello trasteverino o testaccino, ma un romanesco “annacquato” dalla lingua italiana. Non si richiamò, quindi, al romanesco plebeo del Belli né a quello popolano del Pascarella, ma si rifece direttamente al romanesco della borghesia che allora s’ingrossava e s’ingrassava a Roma con la classe impiegatizia dei ministeri e con la speculazione dell’industria edilizia che innalzava sempre nuovi ed austeri palazzi. Era un dialetto annacquato che molti parlavano a Roma, ma che tutti potevano capire facilmente  ormai in ogni parte dell’Italia unita.
   Un’intuizione, che però gli procurò risentimenti, critiche e giudizi pesanti da parte dei cultori tradizionalisti del dialetto romanesco, specialmente da parte del poeta e medico Filippo Chiappini. Dei quali però egli non tenne conto affatto. Ma pur sempre intuizione felicissima, sia per il successo che andava conseguendo  sul Rugantino, sia per il successo che conseguiva con l’edizione delle sue opere e ancor più per quello delle recite delle sue poesie, che andava effettuando nei teatri di molte città in vere e proprie tournée, anche insieme con Pascarella e con Di Giacomo.
   Quella sua intuizione felice oggi risolutamente ci pone il problema dell’uso letterario del dialetto, nel tempo in cui la mobilità sociale e la globalizzazione tecnologica dell’informazione impongono cambiamenti e rimescolamenti incisivi, se non l’attenuazione o addirittura la scomparsa delle strutture vernacolari: oggi la scrittura  della poesia  autenticamente dialettale risponde ancora a bisogni reali, oppure è ormai soltanto un puro e vacuo esercizio letterario?
    Se i poeti oggi avessero  il coraggio di distaccarsi dal frequente compiacimento della ricerca di forme dialettali ad effetto, di parole e modi autentici ma ormai superati dall’uso, per attingere a forme di linguaggio più aggiornate e più vicine all’italiano parlato, come aveva fatto appunto Trilussa, forse la poesia dialettale potrebbe essere non solo più viva, ma potrebbe anche offrire qualche contributo prezioso per l’arricchimento della nostra lingua sempre più appesantita da neologismi insulsi e dall’infarcimento di sempre più numerose parole straniere.


giovedì 11 luglio 2013

                                  LA  RIMA  IN  TRILUSSA
   Ancora una volta, ad una rilettura recente, mi è sembrato naturale riflettere  sugli  aspetti più significativi della poesia di Trilussa: quelli che vanno dalle sue deviazioni dall’ortodossia del dialetto romanesco autentico e trasteverino, come rimproveratogli dal Chiappini, al valore formale della rima  nella sua poesia.
   Qui mi voglio soffermare assai succintamente  proprio su quest’ultimo aspetto. Mi pare giusto affermare in proposito che la rima nella poetica di Trilussa non è un elemento accessorio  della forma, ma è coessenziale alla strutturazione del verso, della strofe,  della composizione nel suo afflato creativo. E neanche è un elemento sovrabbondante del verso, un qualcosa di aggiuntivo e di ornamentale,  quando è invece una nota musicalmente funzionale all’efficacia dell’unità e integrità  del discorso poetico.
   Questa funzionalità spontanea mi pare che si possa esemplificare con il suo ricorso alla rima nell’interno di molti endecasillabi, costruiti ciascuno con la somma di due versi, in modo che alle rime poste alla fine dei versi si aggiungono qua e là anche le rime nel corpo stesso del  singolo endecasillabo. Cito qui di seguito a caso:
“Forse farò ribrezzo,
  Ma so’ tutto d’un pezzo/ e ce rimango!” (endecasillabo = settenario rimato +  quaternario).
“Ma er Sorcetto, che s’era già anniscosto
  Non ve dico a che posto/ j’arispose” (endecasillabo = settenario rimato + quaternario).
 “Me sdraio su la riva e guardo l’acqua
  Che me risciacqua/ tutti li pensieri” (endecasillabo = quinario rimato + senario)
   Si potrebbe pensare che Trilussa, con queste rime nel mezzo dell’endecasillabo, abbia voluto usare un espediente retorico per l’ornamento musicale, come  rinforzo della sonorità della rima. Ma allora questa avrebbe solo il senso di un fronzolo. Non mi pare che sia così, perché  essa vi scaturisce con la naturalezza del discorso ed è espressione di pura creatività poetica.
    Infatti la rima non è che un elemento musicale connaturato col verso accentuativo. E questo lo è stato e lo è ancora per tutta la nostra poesia; sin dai tempi di Giustino Fortunato, con cui si abbandona il ritmo del verso quantitativo. E’ nella nostra contemporaneità che si cerca di eliminarla in quanto ritenuta ostacolo alla pura spontaneità dell’espressione poetica, in nome di un lirismo parossistico, che è solo un malinteso della natura della poesia.