IL ROMANESCO POCO ROMANESCO
DI TRILUSSA
Potrebbe apparire sorprendente non che
Trilussa non si sia laureato, ma che non abbia neanche compiuto un corso
regolare di studi.
D’altronde
abbiamo esempi luminosi al riguardo: il Belli dovette interrompere i
suoi studi a livello di computista,
Croce non trovò mai il tempo per una laurea, Mario Rigoni Stern – autore di Il sergente nella neve - si fermò al “terzo
avviamento”, Guglielmo Marconi e T. A. Edison non seguirono corsi regolari di
studi, ecc. ecc.
Eppure, non solo Carlo Alberto Salustri cominciò a pubblicare,
sul Rugantino di Giggi Zanazzo,
proprio con lo pseudonimo di Trilussa, le poesie e con quello di Marco Pepe gli articoli di
prosa; ma lo fece giovanissimo e anche con una felicissima intuizione:
utilizzare non un romanesco autentico come quello trasteverino o testaccino, ma
un romanesco “annacquato” dalla lingua italiana. Non si richiamò, quindi, al
romanesco plebeo del Belli né a quello popolano del Pascarella, ma si rifece direttamente
al romanesco della borghesia che allora s’ingrossava e s’ingrassava a Roma con
la classe impiegatizia dei ministeri e con la speculazione dell’industria edilizia
che innalzava sempre nuovi ed austeri palazzi. Era un dialetto annacquato che
molti parlavano a Roma, ma che tutti potevano capire facilmente ormai in ogni parte dell’Italia unita.
Un’intuizione, che però gli procurò
risentimenti, critiche e giudizi pesanti da parte dei cultori tradizionalisti
del dialetto romanesco, specialmente da parte del poeta e medico Filippo
Chiappini. Dei quali però egli non tenne conto affatto. Ma pur sempre intuizione
felicissima, sia per il successo che andava conseguendo sul Rugantino,
sia per il successo che conseguiva con l’edizione delle sue opere e ancor
più per quello delle recite delle sue
poesie, che andava effettuando nei teatri di molte città in vere e proprie
tournée, anche insieme con Pascarella e con Di Giacomo.
Quella sua intuizione felice oggi
risolutamente ci pone il problema dell’uso letterario del dialetto, nel tempo
in cui la mobilità sociale e la globalizzazione tecnologica dell’informazione
impongono cambiamenti e rimescolamenti incisivi, se non l’attenuazione o
addirittura la scomparsa delle strutture vernacolari: oggi la scrittura della poesia autenticamente dialettale risponde ancora a
bisogni reali, oppure è ormai soltanto un puro e vacuo esercizio letterario?
Se i poeti oggi avessero il coraggio di distaccarsi dal frequente compiacimento
della ricerca di forme dialettali ad effetto, di parole e modi autentici ma
ormai superati dall’uso, per attingere a forme di linguaggio più aggiornate e
più vicine all’italiano parlato, come aveva fatto appunto Trilussa, forse la
poesia dialettale potrebbe essere non solo più viva, ma potrebbe anche offrire qualche
contributo prezioso per l’arricchimento della nostra lingua sempre più
appesantita da neologismi insulsi e dall’infarcimento di sempre più numerose
parole straniere.