mercoledì 18 novembre 2015

                                          DUCHAMP  E ALTRO

  Quando Duchamp mise i baffi alla Gioconda e fece diventare opere d’arte  la ruota di bicicletta, lo scolabottiglie e l’orinatoio, già Marinetti aveva scombussolato non solo l’arte ma anche il verso e il linguaggio poetico.
   In verità la tecnica, prima con la fotografia e poi col motore a scoppio applicato alle macchine e poi ancora con i vari impieghi dell’ elettricità, aveva già modificato profondamente il mondo dell’uomo e, quindi, già messo in crisi non solo le modalità espressive ma anche la stessa creazione artistica, che non poteva più restare nella linea della tradizione.
  Però attribuire a un unico orinatoio, indifferenziato da altri milioni di orinatoi prodotti industrialmente per materia, forma e colore, il valore artistico, storico, economico proprio di una vera opera d’arte sembrava, e sembra tuttora, fuori dalla logica normale e dalla stessa normalità concettuale.
   In fondo si trattava della sostituzione del fare col già fatto; con la differenza di privare l’oggetto della sua funzionalità pratica e di attribuirgli un valore che prima non aveva: dare a un insignificante un significato di cui prima era privo e che sembrava, e tuttora sembra, semplicemente assurdo.
  Tanto hanno potuto l’inventiva, la tecnica e il mercato!
   E la poesia? La poesia, nello stesso tempo, apparentemente non avrebbe dovuto subire incidenze simili a quelle subite dall’arte per il rapido sviluppo delle nuove tecniche. Ma solo apparentemente.
  In effetti, come avevano intuito Marinetti e i futuristi, anche la  poesia era costretta a subire le sollecitazioni della tecnica, che imponeva nuovi modi di pensare e nuovi modi di esprimere, per nuovi modi di agire in un mondo che si andava facendo tutto diverso da quello della tradizione.
  Era l’uomo nella sua interezza che era costretto ad adeguarsi alle condizioni di un mondo modificato dalla tecnica, specialmente con nuovi linguaggi, come strumenti ed espressioni più rispondenti alla velocità delle macchine che si diffondevano in ogni campo dell’attività umana.
  Ed è non solo a questa velocità che la poesia per sua natura non può adeguarsi, ma anche al debordare delle nuove terminologie tecnologiche, tutte realistiche e precise nelle definizione che essa non è in grado di piegare a funzioni espressive proprie, cioè al linguaggio dei sentimenti, delle evocazioni e delle emozioni.
 Resta perciò ancora da domandarsi: in che senso quella di Duchamp è ancora arte? In che senso ancora è possibile la poesia?    

giovedì 17 settembre 2015

                                   EPIGRAMMA
    In televisione vediamo torme di migranti che fuggono  da  paesi ridotti in rovine per guerre che tolgono loro ogni speranza di vita e di futuro. 
  Vanno incontro a pietà, ma anche ad egoismi individuali e di popoli. Gente preoccupata del proprio benessere, soprattutto dell’ economia in termini di prodotto, della ripartizione delle risorse, delle maggiori spese e dei minori guadagni.
   A me pare che calcoli e pietà si fronteggino sulla linea del tornaconto. Di qui questo mio epigramma che pubblico qui di seguito.
                         MIGRANTI
                                 Non biblico l’esodo
Dalle macerie e miserie di guerra.                             
Ma sulle onde che ingoiano anime
Esso è mortifero più delle dune                                      
Nel deserto più sordo. 
                          
E sulla riva cui tende l’anelito
La pietà si misura a mercato
Su previsto prodotto
Interno lordo.


domenica 6 settembre 2015

Dal mio LETTERE BIGLIETTI E BIGLIETTINI  edito da SIMPLE
trascrivo qui di seguito questi due bigliettini


       DOPO LA GUERRA 

                  Dopo la guerra
                  I morti stanno sottoterra.
                  Ma noi guardiamo attoniti
                  I ricchi ugualmente ricchi
                  Chiunque avesse vinto nella guerra.




                        PROGRESSO
   
                Con la sola fantasia
               Messer Ludovico dalla Luna
  Riportò una favola
               Ed Astolfo la ragion d’Orlando.
               Con tanta scienza e mille miliardi
                Gli uomini d’oggi
               Dalla Luna han riportato appena
               Un pugnello d’arena.





giovedì 6 agosto 2015


Dal mio LETTERE BIGLIETTI E BIGLIETTINI edito da SIMPLE
pubblico qui i seguenti BIGLIETTINI

                 COSCIENZA
             
Abbiamo la coscienza tutti eguale,
Non più scolpita dentro noi, nel cuore,                                                                               Ma scritta sulla carta
Il cui rimorso è dato
Dal codice penale.



                  RISPETTO
                
      Per rispetto dell’uomo                                                 
      Siamo giunti al rispetto per l’infame,
      Mancando di rispetto al galantuomo
                


             BUROCRATE
    
      Una firma e un timbro,
      La notificazione all’altro ufficio
      Nello stretto rispetto della norma,
      E in pace ti metti la coscienza.

      Ma quando morirà
      E l’angelo la carta avrà timbrato,
      Andrà  bussando per le vie del cielo,
      Perché nessuno gli aprirà le porte:
      Per lui l’angelo il timbro avrà sbagliato.

     

















martedì 21 luglio 2015

                      ANCORA SU ARTE E POESIA OGGI

   Il mondo attuale si muove tra dinamismo creativo della tecnica e commisurazione di ogni sua dimensione col denaro mediante il mercato.  Ormai, potremmo dire, tutto è tecnica e tutto è mercato. Poi però il denaro cambia ogni cosa in merce. Anche l’uomo e la sua anima.
   Il valore delle nostre azioni ormai sta nel denaro che esse possono muovere ed accumulare. Se non muovono denaro sono considerate indifferenti. E’ la cultura del nostro tempo.  Conseguentemente ciò avviene anche nel campo della produzione estetica, nel campo della creatività delle arti e della poesia.
   La poesia però oggi non ha mercato, non può muovere denaro che nell’esborso degli stessi poeti che vogliono pubblicare la loro opera. L’accumulo di denaro per i poeti sta solo nella partita delle uscite e non delle entrate. Infatti essi sono scivolati nell’indifferenza; sono stati emarginati dalla vita culturale, proprio perché espunti dal mercato. Conseguentemente hanno cercato di risalire la china con tentativi  di avanguardismo, con sperimentalismi che hanno minato la tradizione dei canoni della forma poetica, anzi hanno spesso evaporato la poesia stessa.
   Gli artisti invece hanno potuto muovere e accumulare ancora denaro. A volte tanto. A volte piegando la loro arte alla tecnica e al mercato. A volte contestando e protestando. A volte, e sempre di più, provocando. Pochi però, perché i molti sono ormai stanno alla stregua dei poeti.
   I pochi lo hanno potuto fare perché la loro arte si realizza nell’unicità materiale dell’opera, che, perciò, può diventare esclusiva proprietà di un solo acquirente. E ciò risponde essenzialmente alle esigenze precipue del  mercato nella trasformazione dell’opera in merce per mezzo del denaro. Così che l’opera vale soprattutto come investimento.
   Proprio le esigenze del mercato hanno determinato le dinamiche convulse dell’arte nella ricerca di innovazioni, con la rincorsa dell’originalità, spesso scambiata con le trovate più strambe.
  Certamente è difficile rintracciare la continuità dell’arte nel tempo dopo le  contestualizzazioni, le decontestualizzazioni, le concettualizzazioni, le installazioni, le performance, ecc,. Non credo sia semplicistico pensare che l’arte attuale sia diventata qualcosa di molto diverso dall’arte del passato e  della tradizione. Nonostante gli sforzi e le giustificazioni dei critici.


sabato 11 luglio 2015


Questa Lettera  tratta dal mio LETTERE BIGLIETTI E BIGLIETTINI
edito da SIMPLE, fu indirizzata da me a Giovanni Marzoli, che la pubblicò
sulla sua rivista letteraria CONTROVENTO NEL 1974.
La ripubblico qui in omaggio e in ricordo di Giovanni Marzoli, uomo
di lettere e di grande cuore.

           A G. MARZOLI   (1974)

Quando io ti scrissi il due d’agosto                                              
Ancora la rivista non m’era arrivata.
Se l’avessi aspettata da un uomo a cavallo                                       
Di certo mi sarei dato mille pensieri:                                                    
O che il cavallo si fosse rotto un garetto,
O che un ferro cavato gli fosse dall’unghia consunta,
O che al cavaliere rotti si fossero                                                           
I glutei per il troppo lungo viaggio,                                                
O altra induzione di certo avrei fatta.

Oggi la posta, si sa, cammina col treno                                          
Ed arriva alle case secondo un sistema
Perfettamente regolato in ogni suo punto,
Giacché strumenti ognora  più veloci s’inventano
E organizzazioni puntuali si studiano
Perché sicuro e celere ciascuno si muova,
ma dove ognuno  confuso come a rete s’impiglia
Per cui si procede sempre più lenti e impacciati;
Perciò io ogni lettera resto
Ad aspettare tranquillo per mesi, quand’anche
D’essere al macero andata il dubbio ci fosse.                               
In verità io la rivista l’ebbi dopo circa venti giorni,
Pensa, portata dal postino fino a casa!
Un crumiro lo diranno i suoi colleghi,
Io un fior di galantuomo
Poiché non ha neanche soppesato il pacchetto
E per via di pochi grammi in soprappeso,
In barba alle leggi sindacali,
Non mi ha mandato affatto a ritirarlo,
Nell’ora di lavoro, all’ufficio della posta;
Come vedi un fiore d’impiegato, uno su mille.
Non appena ricevetti le ponderose copie
Avrei potuto scriverti, ma come sempre
Testardo anche mandarti
Una poesia volevo, che da tempo zittiva
Nel cassetto fra tutte le mie carte,
Dove il mio demone della lima rovista
Mai pago di rifinire ora questo
Ora quel verso che chiede appena un colpetto
Per sentirsi più sano, più vispo, più bello.

Pur ecco ho trovato il tempo ( ah, questo maledetto
Tempo che ci sfugge !) per dirti il mio pensiero
Sulla rivista, su come l’ho trovata
Nella nuova veste: bella! giovane e bella
Come una ragazza d’anni ventisei vestita a festa!
Ho scorso le pagine una per una sino alla fine,
Soffermandomi più a lungo laddove il discorso
Lumeggiava la tua nobiltà di parola e di vita
E sulla tua profonda  umanissima “Preghiera”.

Chi può contare le fatiche
Per ciò che di nobile si pubblica ?
Non di certo i nostri nuovi principi dimentichi
Della valenza delle arti nella civiltà dei popoli!
Non di certo una classe dirigente ottusa
Alla bellezza che crea e che al senso del mondo
Il cuore degli uomini ispira!
Noi poeti non produciamo beni che crescono al sole,
Né alimenti che ingozzano folle,
Non denari che ingrassano banche,
Non assordiamo le città con le nostre officine,
Né schiamazziamo nelle piazze
Per aumenti di salario.

In un secolo in cui s’intendono solo le voci                                 
Acri e sanguigne del capitale e del lavoro
Combattersi  per beni materiali                                                        
Chi vuoi che scruti la fiamma dello spirito
Che s’accende dalle nostre ignee parole?
O parole che hanno radici nelle nostre coscienze
E non si pagano! O le nostre coscienze
Tormentate al creare e ricreare sentimenti
Del tempo che ravvivano la cultura e l’uomo!
Ma chi s’accorge di ciò ? Come poeti
Non siamo un sindacato, né raccogliamo voti
Per coloro che imperano e, dunque, non dobbiamo
Pagine avere che per nostre spese.
Ben misera cosa è pagarsi le pagine che recano         
Impresso il nostro bisogno di  dire,
Ma non così come il far di quegli attori
Che per pagarsi gli agi della vita
Come gli antichi buffoni di sé davanti al volgo
Tra di loro si prendono a sberleffi.

Vero è che spesso ci leggiamo solo tra noi
E pochi altri sensibili al canto delle muse,
Tanto che a volte mi par che ogni poeta
Sia costretto a fare come il gatto quando
Con se stesso gioca e la coda s’acchiappa.
E questo già mi duol per questo mondo
Che si regge sul ferro e sul petrolio,
Che sempre più alle sue macchine somiglia.
Ora ho fatto troppo lungo il mio discorso
E te ne chiedo venia; e mentre mi congedo
Augurale ti lancio un saluto: Orsù,
Con la rivista vola al cinquantennio!

                                     

 

 

 

 

lunedì 29 giugno 2015


Dal mio LETTERE BIGLIETTI E BIGLIETTINI edito da SIMPLE pubblico qui la
prima lettera AD ORAZIO

             AD  ORAZIO  (Prima lettera)                                                  

Felice te, Orazio, se un solo scocciatore
Per Via Sacra t’importunò!                                                               
Tu non sai quante voci ed immagini
Pene infernali m’affliggono
E petulanti e sgualdrine
M’inseguono fin dentro la casa,
Giornalacci  che vendono menzogne,
Politici che propalano promesse
Quasi trappole e lacci per cuccioli e merli,
Pubblicità di un mare di miracoli,
Annunci per defunti sui muri che mi danzano intorno,
Quasi in una fiera di mimi sguaiati.

E che faccio? Strappo manifesti che gridano volgari,
Spengo radio, telefono, televisore
Che tutta l’aria intorno pervadono e scuotono,
Rompo cellulari che stridono garruli
Per chiacchiere inutili,
Chiudo gli occhi per non vedere,
Mi tappo le orecchie per non sentire?

Oh! Io non voglio soffocare dentro un mercato,
Dove ognuno è imbonitore di virtù fatte merce;
Se voglio raccogliermi  
A specchio di me stesso, m’impongo         
Di non passare per un viale qualsiasi,
Né per un miserabile vicolo,
Dove corrono immagini e voci che ti cacano addosso
Siccome arpie alle isole Strofadi
E solo posso rifugiarmi dentro una stanza
Chiusa a doppi vetri.

Felice te, Orazio, per vita d’altri tempi! E me felice
Quando tra pareti domestiche
Torno a conversare sui libri con voi morti
Più vivi dei morti da vivi,
Che così tanto frastuono mi sollevano intorno!
Felice te, che almeno lasciata la Via Sacra
Potevi eludere molestie di chiacchiere e scocciatori!
Felice te che, risalendo  su per la via di Tivoli
E aggirando i Lucretili, ti rifugiavi
Nella tua Digenzia lontana da frastuoni,
Dolce di voli e canti degli uccelli!

Non io potrò trovare  riparo
Dalle oscene voci, dalle turpi immagini,
Dai trilli dei telefoni che chiamano                                    
E mi scocciano ovunque.
Altro è il mio mondo dal tuo,
Altro è il mio ceto e il mio posto
Di piccolo uomo; e certo non ho postulanti
Per favori ai più umili da chiedere ai grandi.
Ma quanti la mia cassetta postale riempiono
Di proposte, di offerte, di ciance, di promesse
Di guadagni e regali tutti gratuiti!
Quanti dal video avanzano profferte,
E dicono d’avere a cuore il bene mio e la mia felicità!
E solo invece mirano ad impinguare il loro
Deposito bancario! Tutti modi ingegnosi
E marchingegni e trappole per spellicciarmi
Giorno dopo giorno persino degli spiccioli.

O come il mondo è cambiato nei secoli
E come in fondo è restato lo stesso
Del tuo tempo, Orazio, anche se al tuo genio
Toccò Mecenate e qualche importuno per via
E a me, piccolo uomo del mio tempo,
Toccò penuria di mezzi e il vivere oscuro dei campi!
Ma ancor oggi, tu felice cantore di carmi,
Di epodi, di satire, in questo bailamme
Di ciarlatani che tessono imbrogli,
Mi sei di conforto, quantunque io non sia un poeta
E non abbia una villa in cui avere rifugio,
Né io  la protezione abbia d’un principe pro tempore.
O tu Grande mi sei di conforto nel mio giorno,
Tanto che a riso mi muove ciò che a rabbia
Così forte dentro mi sollecita!

 

 

 

venerdì 19 giugno 2015

Pubblico qui di seguito la PREMESSA alle LETTERE del mio LETTERE BIGLIETTI E BIGLIETTINI
edito da SIMPLE
                               PREMESSA
   Vocabolari e storiografia letteraria sono concordi: la satira trae il suo nome da un piatto di varie vivande offerto agli dei, in quanto composizione di forme e contenuti variabili, di versi e prosa, cioè da ciò che è indicato con “satura”. Un miscuglio insomma, quasi un minestrone.
    D’altra parte, però, basterebbe non trascurare quello  che scrivono gli storici dell’antichità in proposito. Si coglierebbe facilmente la discendenza della satira da una specie di danze e di canti dei romani nei primi secoli, quindi da ciò che è derivato da “satyrus”.
   Dionisio di Alicarnasso, nella sua Storia di Roma arcaica (siamo nel V sec. A.C.) nel Cap. VII al punto 72.10, a proposito delle processioni, scrive: “Infatti ai danzatori armati facevano seguito i danzatori travestiti da satiri, che imitavano le danze sicinnide…..Costoro motteggiavano e imitavano i movimenti solenni, volgendoli in ridicolo”.
Sappiamo che questa tradizione popolare, diciamo anche plebea, giunge fino alle soglie dell’Impero, quando i legionari nei cortei trionfali di Cesare cantavano: “Ecco, ora trionfa Cesare che sottomise le Gallie e non trionfa Nicomede che mise sotto Cesare”.
  Se si raccogliessero e raccordassero i verbi “schernire, motteggiare,volgere in ridicolo” di cui parla Dionisio in proposito, si vedrebbe bene che questi sono i verbi propri di quella che poi sarà la satira nel suo manifestarsi nella storia letteraria. Si vedrebbe bene che, muovendo dai modi espressivi di coloro che, coperti di pelli di capre, rappresentavano i satiri, poeti e scrittori dei secoli seguenti realizzeranno opere letterarie non solo con linguaggio di scherno e motteggio, ma con raffinata ironia e  sarcasmo, come in Marziale,  di critica e denuncia e ancora di linguaggio beffardo, caustico, mordace, fino anche alla violenta fustigazione morale, come in Giovenale.
   Qui, in queste mie “lettere”, io ho voluto seguire in qualche modo sia l’una che l’altra interpretazione. Di fatto ho scritto quasi un “minestrone”, cioè un miscuglio di versi di varia misura che si congiungono in  versi più estesi nella composizione. Riguardo al contenuto, al genere, però ho tentato, così come m’è venuto, di seguire lo spirito ironico, di denuncia, quindi satirico,  che scaturisce dal mio senso di amarezza, da delusione profonda nei confronti del cammino dell’uomo nella storia.
   Composizioni, che ho voluto chiamare lettere, poiché con esse retoricamente mi sono rivolto a persone vive o defunte, e, curiosamente, persino alla Morte e alla Vita. Questo, però, non dovrebbe sembrare  poi tanto strano, giacché oggi non pare che ci sia tanta possibilità di comunicazione interpersonale concreta e  basata su rapporti affettivi e rilevanze emozionali. Meglio conversare con i Morti, cioè con i loro libri, e meglio parlare con se stessi, fingendo di rivolgersi alla Morte e alla Vita, che parlare in modo impersonale e convenzionale sul filo dei moderni mezzi elettronici e nelle corse affannose degli affari nell’odierno sistema di vita.
                                     L’Autore






venerdì 22 maggio 2015

    
Pubblico qui di seguito questi cinque biglietti tratti
dal mio LETTERE BIGLIETTI E BIGLIETTINI edito
da SIMPLE di Macerata.


           L’UOMO

Spesso si dice che l’uomo è uomo
E che vale ben più d’una bestia.
Ed io dico che ciò è vero, giacché
Uomini-agnelli ci sono, uomini-lupi,           
Uomini-cani ed uomini-porci.
L’uomo è ben più di tutti gli animali,
Perché in sé tutte le bestie contiene
Ed è più bestia di cento bestie insieme.


                 COSCIENZA
    Abbiamo la coscienza tutti eguale,
 Non più scolpita dentro noi,nel cuore,                                                                    
     Ma scritta sulla carta
     Il cui rimorso è dato
     Dal codice penale.


                 RISPETTO
      Per rispetto dell’uomo                                                 
      Siamo giunti al rispetto per l’infame,
      Mancando di rispetto al galantuomo
                

             BUROCRATE

   
      Una firma e un timbro,
      La notificazione all’altro ufficio
      Nello stretto rispetto della norma,
      E in pace si metti la coscienza.
      Ma quando morirà
      E l’angelo la carta avrà timbrato,
      Andrà bussando per le vie del cielo,
      Perché nessuno gli aprirà le porte:
      Per lui l’angelo il timbro avrà sbagliato.


  

                                 EPITAFFIO

                                   Qui giace
                         l’Uomo Contemporaneo
                               non ebbe tempo            
                    che al produrre e al consumo                                                       
                          non rise e non cantò
                        non pianse e non narrò
                                vecchio morì
                         senza essersi avveduto
                d’essere almeno per un dì vissuto
                             O viandante vai
                          non ti posar giacché
                                 costui da te
                          non meritò un saluto.

                            

domenica 10 maggio 2015


Pubblico qui di seguito questo  primo biglietto tratto
dal mio LETTERE BIGLIETTI E BIGLIETTINI edito
da SIMPLE di Macerata.

                QUESTO  MONDO 

Questo è il mondo.
Verso questo mondo
Ho gran voglia di urlare  ed inveire.

Mondo in cui la gente
Corre dietro  segnacoli e vessilli,
Scanna  e si scanna
Sol che vi siano simboli e sigilli.

Mondo fatto di servi,
D’ipocriti, di furbi, di padroni,
Di ladri e di spergiuri
Protesi tutti a spremere minchioni.

Mondo balordo fatto di congreghe
Che un proprio dio si foggiano per spingere
Credule folle a stolide tragedie.

In questi miei versi questo mondo
Non posso che deridere e schernire,
Per sfogare l’interno mio furore                  
E non rodermi dentro,
Urlare ed inveire.                 

martedì 28 aprile 2015

Dal mio LETTERE BIGLIETTI E BIGLIETTINI edito da SIMPLE pubblico qui di seguito la Premessa a “Biglietti e Bigliettini”.    

                                                   PREMESSA

  Ho indicato con “Bigliettini” le mie composizioni più brevi e con “Biglietti” quelle un po’ più lunghe, senza però distinguerle e separarle in capitoli diversi.
  Poiché sono tutte di carattere satirico, in altro tempo le avrei dette classicamente “epigrammi”. Proprio come oltre un ventennio fa, quando ne stampai una trentina, in pochissime copie per gli amici, con il titolo di “Trenta epigrammi”.
  A leggerli allora furono davvero  pochi amici, anche perché ancora non si era diffusa Internet. Ma cambia il tempo e con esso mutano gusti e parole, anche se molte cose poi rimangono sostanzialmente le stesse.  Così oggi ho voluto chiamarli “Biglietti e bigliettini” per significare metaforicamente quegli stessi  modi poetici  storicamente definiti come epigrammi.  Senza presumere avvicinamenti a modelli classici forse inarrivabili.
   Qui mi pare anche opportuno  notare, però,  che col tempo sono caduti in disuso diversi generi di poesia, con vari suoi modi compositivi; e sono venute anche meno alcune funzioni della poesia stessa.  Certamente  per mutamenti di sensibilità culturali conseguenti al cambiamento di strumenti e codici comunicativi nel mondo contemporaneo.
   Ha scritto McLuhan che il mezzo è il messaggio. Oggi le nostre sensibilità non corrispondono più ai mezzi d’informazione, della scrittura e della poesia dei secoli scorsi. Non utilizziamo più solo il linguaggio della parola scritta. Si ricorre spesso all’efficacia del linguaggio iconico; anzi  siamo oltre la fotografia e la cinematografia del passato, siamo ai linguaggi delle tecnologie in cui sono comprese la video scrittura e la memoria digitale.
   Quale funzione può ancora oggi svolgere la poesia in un mondo caratterizzato da così rapidi cambiamenti, da linguaggi e codici così diversi da quelli del passato, specialmente dentro al mondo digitale, iconico, tecnologico?
   Il nostro è il più antipoetico dei tempi, oltre che per l’ansia della velocità dei cambiamenti,  anche perché esso è il tempo del denaro. Il poeta rischia di chiudersi nell’ascolto della sua sola interiorità e la poesia rischia di autolimitarsi alla lirica. La satira stessa oggi è confinata nelle  battute e nelle macchiette degli spettacoli,  nelle vignette dei giornali.
   Eppure non tutti dovremmo rinunciare alla satira poetica. Essa costituisce un modo espressivo che può avere ancora un suo valore, poiché nei momenti di sosta, di raccoglimento e di riflessione ci può consentire ancora una forma di autonomia di giudizio a fronte della piatta banalità del conformismo; e ci può consentire un rovesciamento dello sguardo sul mondo ancora con la forza e la speranza proprie dello spirito critico e libero dell’uomo.
   Con queste mie composizioni io non vi ho rinunciato; anzi in esse ho raccolto  l’espressione di sentimenti elaborati in rapporto ad esperienze di vita colte direttamente e indirettamente nel quotidiano del nostro tempo, tra rabbia, amarezza, sarcasmo.
   Sono composizioni in versi che ho scritto nel corso di alcuni decenni e che ho qui messo insieme in modo alquanto casuale, non avendo neanche tenuto conto né di datarle, né di disporle in ordine cronologico: soggettivamente il lettore può riferirle al tempo che gli suggerisce la sua personale sensibilità.
   Le pubblico tutte oggi in quanto la spesa editoriale non rappresenta più un sacrificio economico. Ma penso che a leggerle saranno ugualmente assai pochi.   
   Forse  anche perché oggi le composizioni satiriche non sembrano ritenute classificabili come poesia, così come lo erano ancora un secolo fa, poiché non rientrano nelle caratteristiche delimitate da un lirismo introspettivo esasperato, secondo le ultime tendenze , quasi direi secondo la “moda” di oggi.
   Forse anche perché esse non rispondono ai canoni dei gusti correnti, più proclivi alle vignette degli umoristi e alle battute dei comici, così rapide e incisive al confronto di composizioni poetiche che pur sempre richiedono  una certa riflessione per la piena comprensione del testo.
   Forse anche perché siamo in tanti a scrivere (penso che ciò sia un bene) e non molti a leggere, tra cui un certo numero solo lettori di noi stessi autori (e penso che questo sia un male).
   Lo scarso numero dei miei eventuali lettori mi consentirà di non sentirmi in colpa per averne infastiditi molti, sia per  non averlo fatto apposta, giacché questi versi  mi sono venuti da sé, per mio personale sfogo dell’animo, pur avendo io tentato di lavorarci su di lima; sia perché  io non ho spedito di fatto alcun bigliettino o biglietto a nessuno.
   Se qualcuno li leggerà sarà forse solo per puro caso e comunque per sua scelta, giacché non andrò a mostrare me e il mio libretto in una qualsiasi televisione per farmelo comprare.

   E se qualcuno li apprezzasse, in tutto o anche soltanto  in parte,  sento che in qualche modo ne sarei sinceramente compiaciuto e     gratificato.                                                                                                                                                                                                            

giovedì 16 aprile 2015

                         ARTE  POESIA  SOCIETA’

  La riflessione sui sommovimenti profondi e dirompenti dell’arte e della poesia nel primo Novecento mi pare che richieda anche opportuna attenzione ai mutamenti delle strutture sociali di quel tempo. E ciò per uno sguardo più comprensivo della complessità delle sollecitazioni all’origine dei mutamenti  non solo delle forme, ma anche  dei concetti stessi di arte e di poesia.
  Infatti, se si mette in rilievo l’influenza delle innovazioni tecnologiche e scientifiche sul cambiamento del mondo artistico e poetico, specialmente in rapporto allo sviluppo e alle applicazioni delle nuove macchine, della psicologia sperimentale e della psicoanalisi, mi pare opportuno che non sia pure da trascurare il momento storico in cui, proprio per effetto della rivoluzione industriale e  tecnologica, si configura e si manifesta la società di massa. E, di conseguenza, che non sia da trascurare l’influenza della stessa società di massa sugli stili e quasi anche sulla natura stessa dell’arte e della poesia, o, comunque, sulla manifestazione delle loro forme e sulla loro funzione.
  La vecchia società strutturata sull’economia di rendita, cioè quella clericonobiliare, aveva fatto fiorire per secoli l’arte mediante le committenze, e aveva protetto e coltivato la poesia nelle corti piccole e grandi in funzione del consolidamento del potere.
  La nuova società di massa, che nasce dal processo di industrializzazione nel corso dell’Ottocento e si fonda sull’economia d’impresa, si sviluppa e si consolida mediante il mercato. E’ evidente che il passaggio dalla società clericonobiliare a quella di massa produce  sommovimenti anche sul piano culturale e in modo specifico sull’arte e sulla poesia.
   Infatti nella nuova società di massa l’arte  non viene più sostenuta dalle committenze, sicché essa, per la sua stessa esistenza, è costretta a gettarsi in pasto al mercato.  Così l’artista sente mercificato e snaturato il prodotto della sua arte, che avverte ormai come  pari a qualsiasi altro manufatto. Sente svuotata e svilita la sua opera creativa, per cui reagisce a ciò che sente come mortificazione. Per protesta,  non crea più l’opera, ma la mutua nel campo dell’arte da ciò che è già fatto e che è posto dall’industria sul mercato, cioè “delocalizza, decontesta” . Duchamp addirittura rifiuta l’arte tradizionale che chiama “pittura retinica” e decontesta  la ruota di bicicletta e l’orinatoio, iniziando così l’arte concettuale. Poi si arriva  al confezionamento del barattolo di  “Merda d’artista” con Manzoni e al taglio della tela con Fontana.
  Insieme con l’arte, anche la poesia si destruttura specialmente col futurismo; l’una e l’altra  cercano una nuova sintassi delle  forme con cui esprimersi. Ma sia la poesia che l’arte hanno ormai rotto molti ponti con cui rimanere collegate al passato. Nella società di massa  e del mercato, l’arte è sempre più tentata dalla “provocazione” e la poesia è sempre più tentata dal suo isolamento nella metafora. In attesa che l’una e l’altra possano ritrovare un proprio equilibrio nella riscoperta dell’integrità dell’uomo anche in rapporto all’integrità del mondo della natura ed anche di quello della cultura..



domenica 12 aprile 2015

  



Pubblico qui di seguito questa poesia tratta dal mio
SCORCI edito da Vitali

                    CAMPOSANTO DEL MIO PAESE
           
            Camposanto silente del mio paese,
            Dove le ossa dei miei sepolte riposano
            E dove le mie la tomba non avranno,
            Da sempre ti ho in mente, luogo di mistero
            E di cipressi come funerei pennoni
            Protesi nell’azzurro.

            Già villa di patrizi antichissimi
            Per i cui atri ornati di colonne fastose
            Andavano matrone e festose ancelle danzavano
            Nel tedio dei ricchi, or nei ruderi sei
            Sepolcro di  poveri, posteri forse
            Di schiavi che un tempo leggero premevano
            Sulla pelle lo strigile nel bagno aulente
            Ai superbi padroni.

            Pur cambiano i tempi e ora ivi
            Le ossa di mio padre in una buca
            Di terra si macerano, perché tornino polvere
            In trionfo di vita, d’erbe fiorite e d’alberi,
            Di nidi, di canti, di voli d’uccelli
            Come egli in saggezza richiese.
            Ma lungo i viali sopra camere ornate
            D’antichi mosaici, sepolcri marmorei
            Dei nuovi arricchiti nomi e date riportano
            Illusi di vivere per sempre nel tempo,
            Per soltanto una scritta su un’urna di pietra,
            Inane custodia delle ossa fatte fragile
            Calcina nel fluire incessante del mondo.

            Così è che oltre i palazzi per i vivi
            Oggi si fanno quasi santuari le tombe per i morti;
            E i cimiteri sono città di defunti
            Che tetre avviluppano quelle alacri dei vivi.
            E’ così che il progresso che  è vanto moderno
            Gli uomini ha spinto a un luogo medesimo
            Per morire e per nascere, di dentro a una clinica,
            A un’industria di nati e a una di morti,
            A città di defunti laddove potrebbe
            Per ciascuno bastare per dopo la morte
            Un’ampolla di cenere.

            Esiguo camposanto, m’attesti tu quanto
            Con le antiche rovine e le tombe recenti
            E’ vana pretesa arrestare il volgere del tempo
            Nell’illusione atavica di vivere oltre
            Il limite estremo degli eventi che segnano
            Il principio e la fine. Così come sei
            Ti guardo commosso col trepido                                            
Occhio non più fanciullo, ma tenero ancora
            D’immagini antiche che affollano
            La memoria di suoni, delle voci di tanti
            Che conobbi e che vidi e che ora riposano                                         
            Nella tua terra  sepolti.
            Ti guardo silente, ma so che finché avrò vita
            Sarà solo il mio cuore di quelli che ho amato
            Camposanto fiorito.