giovedì 19 luglio 2012

UN MIO SONETTO

        Lo vedi tu quel gatto che l’ha fatta
        E come nella buca la nasconde
        Anche all’odore? Le sue cose immonde
        Lui le copre, ciannusa e poi ce gratta.

        Come fa il gatto e come fa la gatta
        Dentro de noi in pieghe assai profonde
        La verità se copre e se confonde
        Come nel settemmezzo fa la matta.

        E dio ce scampi se per qualche via
        La verità se scopra e venga fòri
        Nella bruttezza della sua follia!

        Allora sentiremmo i suoi fetori
        Da non trova’ riparo dove sia
        Ad evitarne i putidi sentori.


giovedì 5 luglio 2012


                                          FUNZIONE SATIRICA DELLA POESIA

  Dentro un sistema socioculturale come l’attuale, può restare la poesia chiusa come in un bozzolo solipsistico a contemplare l’agognata espressione del sublime universale? Forse Dante non ha espresso valori e aspirazioni universali cantando di fatti e persone particolari? Almeno la poesia di oggi riuscisse a scrollarsi di dosso i tanti residui malanni procurati dall’esperienza dell’ermetismo!
 D’altra parte, se in altri tempi la poesia ebbe di mira il sostegno degli ideali risorgimentali, nello sfascio delle nostre attuali condizioni, oggi essa non deve avere una sua funzione di orientamento per un cammino costruttivo, non deve avere il diritto, l’obbligo, la forza di agire come pungolo verso il bene di tutti? E non può avere la funzione di critica e di condanna, e anche di scudiscio, come l’ ebbe con i versi di Giovenale e di Marziale, per non dire delle fustigazioni dantesche e i sarcasmi del Parini e del Giusti?
  La poesia del passato è piena di esempi di prese in giro, di capolavori di messe in ridicolo degli atteggiamenti dell’uomo nel tempo. La tradizione satirica è antichissima e l’origine non sta tanto nella “satura”, cioè nel “piatto misto”, nel “minestrone” indicato dalla critica, dalla storiografia dotta, quanto dai canti popolari e dalle usanze satiresche, nella saggezza di rendere ridicolo l’uomo che tende ad uscire fuor di misura, a insuperbire e ad ornarsi delle penne del pavone.
 Non dico nella forma del dramma satiresco di cui parla anche Aristotile nella sua “Poetica”, ma nella forma nata dalla tradizione delle processioni, dei cortei, di molte manifestazioni rituali, nelle cerimonie e persino nelle celebrazioni dei trionfi dei Romani.
   In proposito dice Dionisio di Alicarnasso alla fine del libro VII della sua  Storia di Roma arcaica: “Infatti, ai danzatori armati facevano seguito i danzatori vestiti da Satiri… Costoro motteggiavano e imitavano i movimenti solenni, volgendoli in ridicolo. Anche l’ingresso dei cortei trionfali dimostra che il motteggio e lo scherzo satiresco sono, per i Romani, un’antica usanza romana…. In un primo tempo, i soldati facevano motteggi in prosa, mentre ora cantano versi improvvisati”.

   Questo è il punto: “I danzatori vestiti da satiri…motteggiavano e imitavano i movimenti solenni, volgendoli in ridicolo”.  Più chiaro di così! Altro che “satura” come piatto misto o minestrone dei critici dotti! Invece proprio come i soldati cantavano nei trionfi di Cesare: “Ecco ora trionfa Cesare che sottomise le Gallie e non trionfa Nicomede che mise sotto Cesare!”.
 Ancora nel periodo fascista sventolavano le pagine del Travaso in cui fiorivano anche le poesie satiriche di Trilussa. Poi, sin dal secondo dopoguerra, la poesia satirica svanì. Nei giornali satirici quali Don Basilio, Cantachiaro, Il becco giallo, ecc. gli epigrammi scomparvero e trionfarono le vignette, le freddure, i pezzi comici e le macchiette.

   Possibile che oggi i poeti non abbiano da fare altro che mascherare il nulla dei loro versi con l' eccesso di metafore, le immagini più strambe, le parole ubriache su righe spezzettate in finti versi?