FUNZIONE SATIRICA DELLA POESIA
Dentro un
sistema socioculturale come l’attuale, può restare la poesia chiusa come in un
bozzolo solipsistico a contemplare l’agognata espressione del sublime
universale? Forse Dante non ha espresso valori e aspirazioni universali
cantando di fatti e persone particolari? Almeno la poesia di oggi riuscisse a
scrollarsi di dosso i tanti residui malanni procurati dall’esperienza
dell’ermetismo!
D’altra parte,
se in altri tempi la poesia ebbe di mira il sostegno degli ideali risorgimentali,
nello sfascio delle nostre attuali condizioni, oggi essa non deve avere una sua
funzione di orientamento per un cammino costruttivo, non deve avere il diritto,
l’obbligo, la forza di agire come pungolo verso il bene di tutti? E non può
avere la funzione di critica e di condanna, e anche di scudiscio, come l’ ebbe
con i versi di Giovenale e di Marziale, per non dire delle fustigazioni
dantesche e i sarcasmi del Parini e del Giusti?
La poesia del
passato è piena di esempi di prese in giro, di capolavori di messe in ridicolo
degli atteggiamenti dell’uomo nel tempo. La tradizione satirica è antichissima
e l’origine non sta tanto nella “satura”, cioè nel “piatto misto”, nel
“minestrone” indicato dalla critica, dalla storiografia dotta, quanto dai canti
popolari e dalle usanze satiresche, nella saggezza di rendere ridicolo l’uomo
che tende ad uscire fuor di misura, a insuperbire e ad ornarsi delle penne del
pavone.
Non dico nella
forma del dramma satiresco di cui parla anche Aristotile nella sua “Poetica”,
ma nella forma nata dalla tradizione delle processioni, dei cortei, di molte
manifestazioni rituali, nelle cerimonie e persino nelle celebrazioni dei
trionfi dei Romani.
In proposito
dice Dionisio di Alicarnasso alla fine del libro VII della sua Storia di Roma arcaica: “Infatti, ai danzatori
armati facevano seguito i danzatori vestiti da Satiri… Costoro motteggiavano e
imitavano i movimenti solenni, volgendoli in ridicolo. Anche l’ingresso dei
cortei trionfali dimostra che il motteggio e lo scherzo satiresco sono, per i
Romani, un’antica usanza romana…. In un primo tempo, i soldati facevano
motteggi in prosa, mentre ora cantano versi improvvisati”.
Questo è il
punto: “I danzatori vestiti da satiri…motteggiavano e imitavano i movimenti
solenni, volgendoli in ridicolo”. Più
chiaro di così! Altro che “satura” come piatto misto o minestrone dei critici
dotti! Invece proprio come i soldati cantavano nei trionfi di Cesare: “Ecco ora
trionfa Cesare che sottomise le Gallie e non trionfa Nicomede che mise sotto
Cesare!”.
Ancora nel
periodo fascista sventolavano le pagine del Travaso in cui fiorivano anche le
poesie satiriche di Trilussa. Poi, sin dal secondo dopoguerra, la poesia
satirica svanì. Nei giornali satirici quali Don Basilio, Cantachiaro, Il becco
giallo, ecc. gli epigrammi scomparvero e trionfarono le vignette, le freddure,
i pezzi comici e le macchiette.
Possibile che
oggi i poeti non abbiano da fare altro che mascherare il nulla dei loro versi
con l' eccesso di metafore, le immagini più strambe, le parole ubriache su righe
spezzettate in finti versi?