venerdì 21 marzo 2014


                   LA POESIA OCCASIONALE 
                           E LA MORTE DI BARTOLOMEO PINELLI
    Uno dei tanti generi poetici del passato è quello della poesia occasionale, spesso riconoscibile anche come genere celebrativo, encomiastico ed anche dedicatorio. E’ un genere che si potrebbe esemplificare con una miriade di poesie, ma certamente uno dei componimenti poeticamente più alti di questo genere è I SEPOLCRI, scritto dal Foscolo in occasione della promulgazione  della legge napoleonica sull’istituzione dei cimiteri e sull’obbligo delle sepolture fuori dai centri abitati.    Me ne viene però sotto gli occhi, fra i tanti da lui composti di questo genere, un sonetto che il Belli scrisse in occasione della morte del famoso incisore trasteverino Bartolomeo Pinelli (er zor Meo), vissuto appena 54 anni, avvenuta il primo aprile del 1835. E poiché ne ricorre l’anniversario il prossimo primo aprile, lo trascrivo qui di seguito anche in suo omaggio.     Nella prima quartina, il Belli procede all’individuazione del personaggio, tratteggiandone i caratteri salienti: Pinelli, il pittore di Trastevere, quello che portava i capelli lunghi sul viso (grugno) col pizzetto di peli sopra il mento ( mosca ar barbozzale) è morto (crepato) per l’ultimo fiasco (bucale) di vino.   Nella seconda quartina, riferisce della visita del medico che, guardando le feci nel vaso da notte (in n’er pitale) si mostra prima dubbioso con l’espressione del viso (cominciò a storce) presagendone la fine, poi disse di chiamare quelli della confraternita (intimate li Fratelli) per preparare il rito funebre.     Nella prima terzina, dice che Pinelli era morto nella miseria, con tre spiccioli nelle tasche (con tre pavoli in zaccoccia) a causa delle bevute in allegria con i compagni (de fa bisboccia) nell’osteria Gabbionaccio.     Nella seconda terzina ed ultima parte, il Belli mette in bocca al popolano narratore l’ansia per la sorte dell’anima del Pinelli, noto per l’astensione ostinata dai sacramenti, e che aveva rifiutato la confessione in punto di morte.
                      LA MORTE DER ZOR MEO
Sì, quello che portava li capelli
Giù p’er grugno e la mosca ar barbozzale,
Er pittor de Trastevere, Pinelli,
E’ crepato pe’ causa d’un bucale.
V’abbasti questo, ch’er dottor Mucchielli,
Vista ch’ebbe la merda in ner pitale,
Cominciò a storce e a masticalla male,
Eppoi disse: Intimate li Fratelli.

Che aveva da lassà? Pe’ fa bisboccia
Ner Gabbionaccio de padron Torrone,
E’ morto con tre pavoli in zaccoccia.
 
E l’anima? Era già scommunicato,
Ha chiuso l’occhi senza confessione....
Cosa ne dite?Se sarà sarvato?
    Poesia scritta per la morte di Bartolomeo Pinelli; quindi poesia occasionale del Belli, i sonetti del quale, in verità, sono quasi tutti occasionali, ispirati dagli avvenimenti quotidiani della vita romana.      Come erano occasionali molte poesie dei grandi poeti, si pensi al CINQUE MAGGIO del Manzoni, per esempio, e come erano i tanti versi di poeti e poetastri composti per ogni occasione, dal compleanno alle nozze, e per ogni altro avvenimento, anche di morte, come per il carme del Manzoni IN MORTE DI CARLO IMBONATI. Come prima erano occasionali le composizioni dei cantastorie e specialmente dei poeti dialettali, quasi sempre nate dalla vita quotidiana ed anche dalla tragicità della cronaca.    Ancora i poeti dialettali contemporanei traggono la loro ispirazione dall’occasionalità, dagli accadimenti della vita quotidiana. Ma poi sono sopravvenuti i quotidiani ad informare e a raccontare gli accadimenti, sono venute le macchine fotografiche e le cineprese a rappresentare dal vivo ciò che accade; ed oggi ci sono le fotocamere dei cellulari, c’è soprattutto il villaggio globale del linguaggio elettronico.     Come si può più pensare ad una poesia occasionale? Non s’incontra più facilmente una poesia occasionale; e laddove accada che se ne trovi, si vede a prima lettura che è occasionale solo apparentemente, perché subito affiora il suo carattere vero, quello lirico e intimistico, quello per cui il poeta parla solo di se stesso, teso a cogliere le proprie emozioni e i propri personali e intimi turbamenti. La poesia occasionale, come la maggior parte degli altri generi, è quantomeno lontana e affievolita, se non addirittura scomparsa del tutto.

giovedì 13 marzo 2014


                  ANCORA SULLA POESIA SATIRICA
   Satira: da satyrus o da satura? Da satiro o da piatto di varie vivande? Strana ambiguità dell’origine di questa parola. E della satira stessa.     Vocabolari e storiografia letteraria sono concordi: la satira trae il suo nome da satura, cioè da un piatto di varie vivande offerto agli dei, in quanto composizione di forme e contenuti variabili, di versi e prosa.   D’altra parte, però, basterebbe non trascurare quello che scrivono gli storici dell’antichità, ad esempio Dionisio di Alicarnasso. Si coglierebbe facilmente la parentela della satira con le danze e i canti dei romani nei primi secoli, specialmente con le danze sicinnide  e i canti fescennini, quindi con ciò che è indicato da satyrus.    Dionisio di Alicarnasso nella sua Storia di Roma arcaica (siamo nel V sec. A.C.) nel Cap. VII al punto 72.10, a proposito delle processioni, scrive: “Infatti ai danzatori armati facevano seguito i danzatori travestiti da satiri, che imitavano le danze sicinnide….. coloro che rappresentavano i satiri avevano  perizomi e pelli di capre e, sul capo, irte criniere e altre simili cose. Costoro motteggiavano e imitavano i movimenti solenni, volgendoli in ridicolo”.    Poi prosegue al punto 72.11: “ Anche l’ingresso dei cortei trionfali dimostra che il motteggio e lo scherzo satiresco sono per i Romani un’antica usanza locale. Infatti è consentito a quelli che partecipano ai trionfi di schernire e motteggiare i personaggi in vista, fossero anche generali”.  E ancora: “….. In un primo tempo, i soldati facevano parodie in prosa, mentre ora cantano versi improvvisati”. Al punto 72.12 aggiunge: “ Ed io vidi anche durante i funerali di uomini illustri, insieme con altri, in processione, gruppi di danzatori, travestiti da satiri, che precedevano il feretro e che si muovevano al ritmo della sicinnide, soprattutto durante le esequie dei ricchi”.   Sappiamo che questa tradizione popolare, diciamo anche plebea, giunge fino alle soglie dell’Impero, quando i legionari nei cortei trionfali di Cesare cantavano: “Ecco, ora trionfa Cesare che sottomise le Gallie e non trionfa Nicomede che mise sotto Cesare”.    Se si raccogliessero e raccordassero i verbi “schernire, motteggiare, facevano parodie” di cui parla Dionisio, si vedrebbe bene che questi sono i verbi propri di quella che poi sarà la satira nel suo manifestarsi nella storia letteraria. Si vedrebbe bene che, muovendo dai modi espressivi di coloro che, coperti di pelli di capre, rappresentavano i satiri, i  poeti e scrittori dei secoli seguenti realizzeranno opere letterarie non solo con linguaggio di scherno e motteggio, ma con linguaggio di raffinata ironia, di sarcasmo, come con Marziale,  di critica e denuncia, e ancora di linguaggio beffardo, caustico, mordace, fino anche alla violenta fustigazione morale, come con Giovenale.  Ma tant’è! Gli storiografi e i letterati forse non vogliono che sia confusa la forma letteraria e poetica con lo schiamazzo del volgo, non vogliono riconoscersi nell’originaria parentela con la rozza improvvisazione popolaresca e plebea. Essi badano alla forma che non può nascere, secondo loro, per dirozzamento e depurazione di un vile sentire, ma può nascere come stile solo dalla genialità di menti che  distillano la forma  da un piatto di vivande, da un minestrone, destinato agli dei e perciò materia di nobile espressione.   Forse con la psicoanalisi si potrebbe dire che il complesso di superiorità nei confronti del volgo conduce sicuramente a distorsioni strabiche anche nella realtà della storia. Eppure proprio essi, i letterati ed anche gli storiografi, dovrebbero sapere meglio degli altri che la lingua tanto più fiorisce ed è nobile  quanto più essa si origina dal dialetto e di questo si nutre.    Dobbiamo malinconicamente, però, concludere che oggi si è ritornati al punto di origine. Si è conclusa la parabola della satira, sicché essa quasi scompare dalla letteratura, per ritrovare se stessa nella comicità rozza e grassa, buona di nuovo per la plebe, non più nei cortei e nelle piazze, ma in certi frequenti spettacoli televisivi e nelle sempre più rare vignette che appaiono ancora in qualche pagina di giornale. Così ci coglie la tristezza per come vanno le cose nel mondo.

 

 

 

 

 

giovedì 6 marzo 2014


Pubblico qui di seguito altri stornelli della
mia raccolta  VERSI ORTICANTI edita da
Youcanprint.

         POPOLO                                               
Fior de ceraso,
Ogni cosa se piglia come d’uso
E il popolo se piglia per il naso.

Fiore odoroso,
Il popolo pigliato per il naso
Ce piglia tanto gusto ch’è gioioso.

Fior de cipolle,
A sta folla ce ortìco, ma alla pelle
Nemmanco ce se formano due bolle.

Rosa  sfiorita,
Pure se io l’ortìco qui, il poeta
Ci/azzarda una metafora marcita.                              
                                                                                     
Fioretto bello,                                                    
C’è il sofisma, la logica, il cavillo                                    
Per imbrogliare al popolo il cervello.

Fiore de pianta,
Il cobra con lo zufolo s’affronta,                            
Con le parole il popolo s’incanta.      

Fior de cotogna,
Il popolo ce soffre e ce mugugna,
Se la canta e se gratta poi la rogna.

Fiore d’acanto,
Il poeta ce smoccica compunto,
E ce s’inventa lacrime de pianto.