lunedì 17 dicembre 2012
Pubblico qui di seguito i primi due sonetti della corona
I Valori tratti dalla mia raccolta VERSI SATIRICI
editi da Booksprint
I VALORI
I
Parlano de valori e io me stufo
Poiché dietro a ogni lemma de valore
C’è il trucco de potere, c’è il vigore
De’ privilegi stronzi, e io ce gufo.
Coi valori ce fanno il gioco a ufo,
Chi più sporca la fa se fa priore.
Ce schiattano de sangue e de sudore;
Ma poi con me ce sbattono sul tufo.
Invece no, me danno poi la sola,
Ché da che mondo è mondo al popolino
Ce raccontano questa e quella fola;
Così come se fa con un bambino
Ce sospingono, quasi pe’ destino,
A credece nell’asino che vola.
II
Parlano de giustizia e tu ce credi,
Parlano dell’onore e tu ce giuri,
Ma se ce guardi dentro e poi misuri,
Dimme un po’ che cosa tu ce vedi!
Nella parola non ce resta in piedi
Un fatto, un cristo, ma vapori scuri
D’astrattezze e rumori de tamburi,
Nodi de ‘mbrogli e simboli de fedi.
Ce resti fesso e poi te contraddici,
Sotto sotto ce credi e poi tentenni
Pur se l’idea cià messo le radici.
Lo so bene; le tengo sul groppone,
Ce credetti e la fede ce mantenni,
Ce credo ancora e so che so’ minchione.
lunedì 19 novembre 2012
Trascrivo qui di seguito i primi quattro sonetti
del mio VERSI SATIRICI pubblicato da Booksprint Edizioni
LINGUAGGI
I
Ce sfringuelli a sapé’ come ce scrivo
Con questo mio linguaggio un po’ balzano,
Che non pare nemmanco paesano,
Pare non serio ma manco corrivo?
Ce sfrigoli a sape’ come ci arrivo
A questo eloquio che te sòna strano,
A sto dire che io dico borghesano
O civilese e che d’un luogo è privo?
Me richiamo a un parla’ ch’è parla’ chiaro,
Oltre il dialetto ch’è già bello e morto
Fòre de qualche loco carbonaro,
Oltre la lingua, perché non sopporto
Il parla’ con forchetta e con cucchiaro
Pe’ sceglie’ il medio, il lungo ed il più corto.
II
Ma lascia sta’ Antonello il senatore
Che dice che ce scrive in romanesco!
Il suo modo me sa d’ottocentesco,
D’artefatto, me sa de strappacore.
Mo siamo all’esperanto, al parlatore
Del più chiaro parla’ novecentesco,
Al mondo incivilito e giornalesco,
Globalizzato e telespettatore.
E il saputo che vo’ tenere in vita
Con l’artificio un qualche dialetto
A me me pare un medico somaro:
Ce scrive una ricetta già fallita,
Quando quello è già disteso a letto
E cià la faccia dell’estinto caro.
III
Te ricordi quando c’erano i fascisti,
Guardiani dell’italica favella,
Che a parla’ ce facevano i puristi
E se rischiava pure una querela?
Mo se ce parli o leggi, gli snobisti
Te rifilano termini in sequela
De lingua inglese; a noi, poveri cristi,
Qua non ce resta che la lamentela:
Ma possiamo capì’ sta tiritera
De termini stranieri nel discorso
Infilzati per boria e sicumera?
Non ce l’hanno il bòngusto né il rimorso,
Ma ciànno il ghigno d’una mente altera
Che pe’ fasse capi’ vole il rimborso.
IV
S’ apprezzi pure il dialetto antico,
Ma non se parla più con quel linguaggio;
Mo l’asino non raglia solo a maggio,
Vola in aereo pure il beccafico.
Quello te spicch inglisc e ce fa il fico,
Questo d’ intramezzacce ci ha il coraggio
Un pezzo de francese: è un assemblaggio
De tecniche e de lingue che ‘n te dico!
Io dico bene e quello dice occhei,
Io vado fòri e quello fa il vichendi,
Mastica gomme, e io l’ammazzerei!
Ed a scuola a sti poveri istruendi
S’insegna lingua inglese; approverei
Se sapessero l’italo dicendi.
del mio VERSI SATIRICI pubblicato da Booksprint Edizioni
LINGUAGGI
I
Ce sfringuelli a sapé’ come ce scrivo
Con questo mio linguaggio un po’ balzano,
Che non pare nemmanco paesano,
Pare non serio ma manco corrivo?
Ce sfrigoli a sape’ come ci arrivo
A questo eloquio che te sòna strano,
A sto dire che io dico borghesano
O civilese e che d’un luogo è privo?
Me richiamo a un parla’ ch’è parla’ chiaro,
Oltre il dialetto ch’è già bello e morto
Fòre de qualche loco carbonaro,
Oltre la lingua, perché non sopporto
Il parla’ con forchetta e con cucchiaro
Pe’ sceglie’ il medio, il lungo ed il più corto.
II
Ma lascia sta’ Antonello il senatore
Che dice che ce scrive in romanesco!
Il suo modo me sa d’ottocentesco,
D’artefatto, me sa de strappacore.
Mo siamo all’esperanto, al parlatore
Del più chiaro parla’ novecentesco,
Al mondo incivilito e giornalesco,
Globalizzato e telespettatore.
E il saputo che vo’ tenere in vita
Con l’artificio un qualche dialetto
A me me pare un medico somaro:
Ce scrive una ricetta già fallita,
Quando quello è già disteso a letto
E cià la faccia dell’estinto caro.
III
Te ricordi quando c’erano i fascisti,
Guardiani dell’italica favella,
Che a parla’ ce facevano i puristi
E se rischiava pure una querela?
Mo se ce parli o leggi, gli snobisti
Te rifilano termini in sequela
De lingua inglese; a noi, poveri cristi,
Qua non ce resta che la lamentela:
Ma possiamo capì’ sta tiritera
De termini stranieri nel discorso
Infilzati per boria e sicumera?
Non ce l’hanno il bòngusto né il rimorso,
Ma ciànno il ghigno d’una mente altera
Che pe’ fasse capi’ vole il rimborso.
IV
S’ apprezzi pure il dialetto antico,
Ma non se parla più con quel linguaggio;
Mo l’asino non raglia solo a maggio,
Vola in aereo pure il beccafico.
Quello te spicch inglisc e ce fa il fico,
Questo d’ intramezzacce ci ha il coraggio
Un pezzo de francese: è un assemblaggio
De tecniche e de lingue che ‘n te dico!
Io dico bene e quello dice occhei,
Io vado fòri e quello fa il vichendi,
Mastica gomme, e io l’ammazzerei!
Ed a scuola a sti poveri istruendi
S’insegna lingua inglese; approverei
Se sapessero l’italo dicendi.
mercoledì 7 novembre 2012
Presso Booksprint Edizioni è uscito ieri il mio
VERSI SATIRICI di cui qui di seguito riporto la premessa.
PREMESSA
Questo volumetto raccoglie in una prima parte le composizioni scritte prima del 2000, nella seconda quelle scritte dopo il 2000. Sono composizioni che ho voluto scrivere in forma di sonetti, sia in opposizione alla struttura prosastica di molta poesia contemporanea, sia perché il sonetto sollecita il pensiero alla sintesi ed è tanto duttile da rendere efficace ogni genere di poetica, anche quella ironica e sarcastica.
La prima parte, quella intitolata “Prima del 2000”, si apre con sette sonetti raccolti sotto il titolo “Il mio linguaggio”. Vi dico perché ho scritto questi versi non nella lingua letteraria, ma in una sorta di parlato, una via di mezzo tra la lingua ed un dialetto non specifico, quasi a costituire una specie di idioletto, che qui chiamo “civilese” o “borghesano”.
Un “civilese” forse come reazione all’uso corrente della nostra lingua infarcita da mille inglesismi ed esotismi vari; e forse anche a fronte di un rapido decadimento dell’uso del dialetto, causato dalla moltiplicazione dei mezzi di comunicazione e dalla mobilità migrante.
Dopo “Il mio linguaggio”, si aggiunge “La crisi” in quattro sonetti, e poi “Il gioco delle carte” in sette sonetti e, quindi, “L’ammazzamento del Papa” in tre sonetti. In tutte queste composizioni mi sono divertito, satireggiando qua e là, con richiami e citazioni alla realtà della vita degli ultimi decenni del secolo scorso.
Nella seconda parte, quella intitolata “Dopo il 2000”, ho trattato due aspetti che mi hanno coinvolto per tutta la vita.
Il primo aspetto, in sei sonetti, è quello intitolato “I valori”, in cui ho scritto degli ideali cui avevamo orientato la vita noi giovani con la Resistenza e con la Ricostruzione repubblicana, poi vissuti nell’amarezza della delusione con gli avvenimenti dei decenni successivi.
Il secondo aspetto, che ho trattato in sedici sonetti, è quello intitolato “Chiacchiere”. Chiacchiere sono appunto le parole che designavano i valori scritti nella Costituzione e nelle nostre coscienze: parole turgide di significato che erano sangue caldo di noi giovani che ci nutrivamo di speranza. Parole il cui senso abbiamo visto demolito col tempo. Parole divenute poi solo chiacchiere, perché svuotate del loro contenuto con un’erosione progressiva di contro a una sempre più amara delusione. Una delusione dolorosa vissuta come ferita nell’anima di noi giovani che volevamo un mondo più giusto, senza più miserie per i più poveri e senza più privilegi per i più furbi. Ma la realtà è dei più furbi, purtroppo con i privilegi intatti, anzi aumentati. E questo è stato il nostro più cocente disincanto.
A questi sonetti poi se ne aggiungono altri sette intitolati “L’òmo” e altri tre con vario argomento, sempre però svolti con spirito satirico oltre al senso di amaritudine sotteso.
L’Autore
Questo è il link per accedere direttamente al sito
http://www.booksprintedizioni.it/libro/satira/versi-satirici e per leggere le prime dodici pagine
domenica 7 ottobre 2012
Pubblico qui di seguito gli stornelli satirici iniziali
del mio VERSI ORTICANTI pubblicato da Youcanprint
PERCHÈ CE ORTÍCO
Fior d’agrimonia,
Ce rosico a sto mondo de pecunia,
In cui tutto finisce in cerimonia.
Fiore de cardo,
M’arrabbio, me ce rodo e non demordoCon questo mondo ipocrita e bugiardo.
Fior de radicchio,
M’arrabbio con sto mondo e ce ridacchio,E il fegato de dentro me rosicchio.
Fioretto emetico,
A sto poeta alla parola estaticoCon l’ortica facciamogli solletico!
Fior d’albicocca,
Diamo a sto mondo un graffio per ripiccaE pizzicotti a chi ce tocca tocca!
Fiori montani,
A sto mondo de pifferi e cialtroniPer beffa ora battiamogli le mani!
Fior de patata,
Ai ciurmatori de morale ignotaFacciamogli un versaccio e una fischiata!
Fioretti a ciocche,
Diamogli un’orticata e quattro pacche
A sti poeti pieni de brilocche!
sabato 1 settembre 2012
Quattro miei
stornelli satirici sulla poesia contemporanea
tratti dal mio “Versi orticanti”- Edizioni Youcanprint.it -
Fiore de fratta,tratti dal mio “Versi orticanti”- Edizioni Youcanprint.it -
Sto poeta ce studia e ce cianchetta
E poi con due metafore ciabatta.
Fiore de fratta,
Il poeta ce coce l’aria fritta,
Condisce versi in prosa rarefatta.
Fior de viole,
I poeti so’ come le cicale,
Ce stanno in ozio e scrivono parole.
Fiore de nicchia,
Sto poeta sui versi ce sonnecchia,
Su sto mondo parecchio ce dormicchia.
sabato 4 agosto 2012
QUALE POESIA?
Qualche giorno fa sono stato in un paio di
grosse librerie. In ognuna ho trovato pareti di romanzi, scaffali pieni di saggi, collane di manuali, soprattutto libri di
cucina. Di libri di poesia direi neanche l’ombra; ma pure se ne intravvedevano
alcuni di A. Merini e qualche altro dei classici. Di contro, nei siti on line
c’è un mare di poeti, cioè un mare di coloro che intendono scrivere poesie.Senza voler procedere ad un’analisi di dati oggettivi, si ha la netta impressione che la poesia oggi sia solo una vaga aspirazione di molti, pensando al numero appunto degli aspiranti poeti. Se poi si guarda invece a quello che commercialmente è detto prodotto, cioè al complesso delle cosiddette poesie pubblicate comunque, allora ci si trova di fronte a sfoghi, a ricercate e fanciullesche emozioni, ad immagini di sogni ad occhi aperti, ad espressioni di sentimenti e risentimenti scambiati per creazioni poetiche. Al di là dalla forma, che non è secondaria, ma coessenziale con la poesia stessa.
Di là dalla forma, appunto, se possibile. Come mi è capitato poi di considerare le poesie lette alcuni giorni fa sul Messaggero svolte sul tema dello spread. Qui, diversamente dai siti, dodici poesie di dodici poeti fra i più noti di quelli odierni. Da trasecolare. Va bene che la poesia sembra essere estranea allo spirito del nostro tempo. Ne ho considerato un esempio parlando più sopra di due librerie. I libri di poesia non si vendono più anche per lo spirito del tempo. Spirito di prosa, tempo di parole rapide e di idee secche e veloci, di concetti su cui non ci si può soffermare per mancanza di tempo, che sfugge. Quando invece la poesia è raccoglimento, concentrazione, ascolto della vita, interiorizzazione che va oltre la misura del tempo.
Ma poi ci si mettono anche i poeti. Con la loro concezione della poesia. Poesia intesa come suoni di parole; come giochi di parole; come astrazioni del tutto soggettive e come tratteggio di crespe in superficie d’un tempo liquido e di un mondo rarefatto. Quando invece la vita ribolle e si fa strazio nella profondità dell’anima. Quando lo spirito si ribella e si lacera all’ipocrisia e alla perversità dell’ingiustizia dell’uomo verso l’uomo in questo sistema che è solo trama di lotte egoistiche per la selezione dei sopravviventi.
Ed allora si vede perché nessuno legge poesie. Si giustificano gli editori perché non pubblicano e non vogliono manoscritti di poesia, ma solo romanzi e libri di cucina.
Allora si pone concretamente il problema della riflessione sulla funzione della poesia nel nostro mondo, nella cultura del nostro tempo. Come responsabilità del poeta di fronte a se stesso, alla poesia, alla cultura. Ed anche come responsabilità verso l’uomo. Quindi verso la società. Perché il poeta non può parlare solo a se stesso.
giovedì 19 luglio 2012
UN MIO SONETTO
Lo vedi tu quel gatto che l’ha fatta
E come nella buca la nasconde
Anche all’odore? Le sue cose immonde
Lui le copre, ciannusa e poi ce gratta.
Come fa il gatto e come fa la gatta
Dentro de noi in pieghe assai profonde
La verità se copre e se confonde
Come nel settemmezzo fa la matta.
E dio ce scampi se per qualche via
La verità se scopra e venga fòri
Nella bruttezza della sua follia!
Allora sentiremmo i suoi fetori
Da non trova’ riparo dove sia
Ad evitarne i putidi sentori.giovedì 5 luglio 2012
FUNZIONE SATIRICA DELLA POESIA
Dentro un
sistema socioculturale come l’attuale, può restare la poesia chiusa come in un
bozzolo solipsistico a contemplare l’agognata espressione del sublime
universale? Forse Dante non ha espresso valori e aspirazioni universali
cantando di fatti e persone particolari? Almeno la poesia di oggi riuscisse a
scrollarsi di dosso i tanti residui malanni procurati dall’esperienza
dell’ermetismo!
D’altra parte,
se in altri tempi la poesia ebbe di mira il sostegno degli ideali risorgimentali,
nello sfascio delle nostre attuali condizioni, oggi essa non deve avere una sua
funzione di orientamento per un cammino costruttivo, non deve avere il diritto,
l’obbligo, la forza di agire come pungolo verso il bene di tutti? E non può
avere la funzione di critica e di condanna, e anche di scudiscio, come l’ ebbe
con i versi di Giovenale e di Marziale, per non dire delle fustigazioni
dantesche e i sarcasmi del Parini e del Giusti?
La poesia del
passato è piena di esempi di prese in giro, di capolavori di messe in ridicolo
degli atteggiamenti dell’uomo nel tempo. La tradizione satirica è antichissima
e l’origine non sta tanto nella “satura”, cioè nel “piatto misto”, nel
“minestrone” indicato dalla critica, dalla storiografia dotta, quanto dai canti
popolari e dalle usanze satiresche, nella saggezza di rendere ridicolo l’uomo
che tende ad uscire fuor di misura, a insuperbire e ad ornarsi delle penne del
pavone.
Non dico nella
forma del dramma satiresco di cui parla anche Aristotile nella sua “Poetica”,
ma nella forma nata dalla tradizione delle processioni, dei cortei, di molte
manifestazioni rituali, nelle cerimonie e persino nelle celebrazioni dei
trionfi dei Romani.
In proposito
dice Dionisio di Alicarnasso alla fine del libro VII della sua Storia di Roma arcaica: “Infatti, ai danzatori
armati facevano seguito i danzatori vestiti da Satiri… Costoro motteggiavano e
imitavano i movimenti solenni, volgendoli in ridicolo. Anche l’ingresso dei
cortei trionfali dimostra che il motteggio e lo scherzo satiresco sono, per i
Romani, un’antica usanza romana…. In un primo tempo, i soldati facevano
motteggi in prosa, mentre ora cantano versi improvvisati”.
Questo è il
punto: “I danzatori vestiti da satiri…motteggiavano e imitavano i movimenti
solenni, volgendoli in ridicolo”. Più
chiaro di così! Altro che “satura” come piatto misto o minestrone dei critici
dotti! Invece proprio come i soldati cantavano nei trionfi di Cesare: “Ecco ora
trionfa Cesare che sottomise le Gallie e non trionfa Nicomede che mise sotto
Cesare!”.
Ancora nel
periodo fascista sventolavano le pagine del Travaso in cui fiorivano anche le
poesie satiriche di Trilussa. Poi, sin dal secondo dopoguerra, la poesia
satirica svanì. Nei giornali satirici quali Don Basilio, Cantachiaro, Il becco
giallo, ecc. gli epigrammi scomparvero e trionfarono le vignette, le freddure,
i pezzi comici e le macchiette.
Possibile che
oggi i poeti non abbiano da fare altro che mascherare il nulla dei loro versi
con l' eccesso di metafore, le immagini più strambe, le parole ubriache su righe
spezzettate in finti versi?
domenica 24 giugno 2012
ANCORA SULLA FUNZIONE DELLA POESIA
Nella prima metà del secolo scorso gran parte della poesia si era
espressa in una modalità solipsistica, mentre nella seconda metà pareva
esplodere in mille forme di un arido sperimentalismo. Era comunque, prima e
dopo, del tutto priva di una sua funzione incisiva, di un suo significato vivificante
in quel momento storico, come era stato invece per la cinematografia, ad
esempio, col neorealismo.Quantunque ridotta ai margini, la poesia non poteva essere abbandonata a se stessa. I poeti tendenziali, cioè quelli che provano ad esserlo, non erano pochi e diventavano sempre più numerosi nel momento in cui si rendevano loro accessibili sia i mezzi di comunicazione di massa che le piccole case editrici a pagamento. Potevano costituire una categoria da utilizzare in seno alla società anche per fini indirettamente politici, anche in prospettiva dell’acquisizione del consenso.
Ne nacque un’immensa fioritura di concorsi e concorsetti poetico-letterari. Nei paesini come nei rioni. Ogni associazione, ogni circolo culturale o di categoria aveva il suo bel premio di poesia: poesia d’amore, poesia di ecologia, poesia per la mamma, poesia per la pace, ecc. E una grande fiera di coppe e coppette, di medaglie e medagliette, di diplomi e diplomucci. Col patrocinio di questa o quella autorità locale, ma anche di autorità alte, persino con dedica di proprie medaglie.
Era una spinta alla poesia dei sentimenti e dello sfogo dell’animo, di tentazione e tendenza al sogno di scoprirsi poeti e poetesse degni non solo di pubblicazione ma anche di corone d’alloro. Così i concorsi e le gare di poesia avevano assunto il valore dei tornei di gioco alle bocce e dei giochi di briscola e tresette. Con tanto di coppe e medaglie; con tanto di notorietà momentanea delimitata al luogo della premiazione. Ho conosciuto poeti che avevano collezionato lunghi e inutili elenchi di coppe e medaglie. Era una spinta soprattutto alla diversione dagli ideali, a dedicarsi non a interessi e scopi alti e concreti, ma a falsi miti, a vedere il dito e non la luna.
A questo livello è stata trascinata la poesia nel nostro tempo. Tra solipsismo e sperimentalismo. Tra divagazione e falsi scopi. Svuotata di ogni sua efficacia e valore. Anche come risultato di un processo di massificazione dei mezzi di comunicazione. E di svalutazione delle forme e dei codici comunicativi. Ciò ha indotto la poesia alla trascuratezza delle sue forme. Non sono valsi i concorsi e le medagliuzze a tirarla su. Anzi hanno contribuito a violentarla perché fosse piegata a scopi estranei alla sua natura. Non ultimi gli scopi politici volgari, quelli degli acchiappavoti.
Ma se la forma è sostanza nel diritto, nella poesia essa è consustanziale. La poesia è la sua stessa forma; più che nel diritto. Persa la forma, si è persa anche la poesia. Anche perché si è perso pure il concetto di funzione della poesia. O se ne è avuto un travisamento, tale che ne disorienta le finalità e mina la sua stessa ragione di essere.
venerdì 8 giugno 2012
QUATTRO MIEI
STORNELLI A DISPETTO(Epigrammi)
Fior de montagna,Quelli addosso se portano la rogna;
E c’è chi se la gode e poi ce magna
Fiore de spini,
Messi alla greppia, tutti sti marpioni
Magnano piatti e ingoiano quattrini.
Fiore de bergamotto,
A quelli che se magnano anche il piatto
Diamogli quattro graffi e un pizzicotto.
Fior de campagna,
Il poeta su metafore s’impegna,
Ce soffre d’emozione e poi ce magna.
domenica 27 maggio 2012
FUNZIONE DELLA POESIA 4
Tempo
fa pubblicai una mia raccolta di epigrammi scritti in forma di stornelli con
una sorta di linguaggio dialettale non specifico. L’Editore, uno di quelli on
line, l’inserì in una sua collana di “Varie” anziché in quella di “Poesia”.
Così è, oggi. S’identifica la poesia con un suo genere, quello della lirica. Se
non è lirica, non è neanche poesia. Perciò si può affermare che il nostro sistema
culturale rivoluzionato dalla tecnica, caratterizzato dalla velocità e dalla
provvisorietà, non può accettare in sé la poesia, se non come espressione
emarginata o ridotta nei limiti del privato. Buona, insomma, per esprimere
stati d’animo e sentimenti; buona a starsene rincantucciata sul piano
dell’acchiappanuvole e per questo incoraggiata dalla classe dirigente con concorsetti
come al gioco della briscola.Obiettivamente, in queste condizioni, chi oggi si azzarderebbe più a scrivere un poema, un’ecloga, un’elegia, un’ode? Tutte forme che richiedono tempo e meditazione, tutte uscite dagli schemi della poesia contemporanea e che stanno nella letteratura come testimonianze, come storia.
Eppure la poesia non deve e non può essere residuale. Bisogna custodirla, almeno nelle sue forme più vive e tuttora più efficaci. Non è cosa da buttare nei ripostigli della storia, come i reperti archeologici negli scantinati dei musei. Poiché l’uomo, anche in questo scorcio della sua cultura tecnologica, conserva la sua integrità e, quindi, la potenzialità di sviluppo di tutte le sue dimensioni, compresa quella della sua creatività poetica.
Per queste considerazioni, la poesia potrà svolgere ancora diverse sue funzioni specifiche almeno sul piano dell’estetica. Potrà perdere forme ed acquisirne di nuove; potrà anche perdere funzioni obsolete, come quella encomiastica o quella celebrativa. Ma ci sono tuttora funzioni che possono essere incisive anche nell’attuale realtà socioculturale. Una di queste funzioni, io penso , è quella della satira; e una delle sue forme è l’epigramma.
Per la sua sinteticità , per la sua concisione, per la brevità e per la velocità di espressione del pensiero, l’epigramma può rispondere efficacemente alle esigenze della società tecnologica. Può sensibilizzare, richiamare, sollecitare al di là delle battute, delle freddure, delle vignette satiriche, delle scenette comiche , che si esprimono su altri versanti e che straripano dalle trasmissioni televisive e molto limitatamente dalla carta stampata.
Tempi forse felici per la comicità teatrale e televisiva, quelli attuali. Tempi tristi invece per la satira poetica: non abbiamo oggi un giornale satirico, su cui, accanto alle vignette, poter leggere satire ed epigrammi. Gli epigrammi infatti possono esprimere lo spirito satirico in modi e sensibilità diverse dalle vignette, che si realizzano con altro linguaggio e sul piano dell’improvvisazione, nel modo più diretto e legate al temporaneo con lo strumento delle cosiddette battute, in cui si concentra la manifestazione del ridicolo, a volte con la più pungente efficacia. Gli epigrammi si esprimono con più studio, con maggiore artificio, con più attenzione artistica, tale da superare anche la temporaneità, per accedere a quell’efficacia che caratterizza i massimi modelli della letteratura del passato.
Ancora oggi possiamo goderci l’epigramma del vescovo Paolo Giovio contro Pietro Aretino: “Questi è l’Aretin, poeta tosco; /Di tutti disse mal fuorché di Cristo, /Scusandosi col dir: Non lo conosco”. Né possiamo dimenticare l’altro del Foscolo: “Questi è il Monti, poeta e cavaliero,/Gran traduttor de’ traduttor d’Omero”, diretto polemicamente contro il Monti che aveva tradotto l’Iliade senza conoscere il greco.
Piccoli capolavori, certamente di altissima fattura poetica.
mercoledì 23 maggio 2012
domenica 13 maggio 2012
FUNZIONE DELLA
POESIA 3
Nei
miei recenti post dedicati alla poesia, avevo scritto che in passato questa
aveva svolto non poche volte una funzione di sostegno al potere, come nella
corte augustea e in quelle rinascimentali. Fino a non molto tempo fa, in
effetti la poesia ancora svolgeva una funzione viva ed operativa all’interno
del sistema sociale, anche come strumento di produzione del consenso.
A
questo proposito, proprio giorni fa, Franco Cordero scriveva su La Repubblica
del 26 aprile 2012 con riferimento alla guerra di Libia: “…. dal Corriere della
Sera D’Annunzio canta le Gesta d’Oltremare in terzine dantesche, dieci canzoni,
8 ottobre 1911- 14 gennaio 1912. Albertini gliele paga 1250 lire l’una ( insomma
D’Annunzio incassa 12500 lire di quei tempi – n.d.s.-) Albertini ci tira un
milione di copie del suo Corriere della Sera”.
Franco Cordero aggiunge, sempre con riferimento alla guerra di Libia:
“Giovanni Pascoli tiene un discorso che ai miei tempi figurava nelle
antologie,<<La grande proletaria s’è mossa>>”. Figuriamoci: il
pacifista e socialista Pascoli che diventa sostenitore di una guerra
coloniale!
Oggi
è cambiata profondamente la struttura della nostra società ad opera soprattutto
della tecnica: ne risultano modificati i nostri modi di pensare e di vivere,
quindi i nostri modi operativi, i nostri personali atteggiamenti. La funzione
della poesia ora è davvero ridotta alla sola sfera personale e intimistica. E’
così marginale che il potere l’ha
utilizzata in questi ultimi tempi come strumento consolatorio per il cosiddetto
tempo libero; tanto che prima
dell’attuale crisi finanziaria non c’era ente, dopolavoro, associazione che non
bandisse il suo bravo concorso poetico, premiando i concorrenti come ad un
concorso del gioco delle bocce o del gioco a briscola. In fondo a questa
dimensione sociale è stata ridotta la funzione della poesia, soprattutto da una
politica quanto mai ottusa e gretta.
Bisogna però chiedersi se davvero la poesia può essere emarginata in
modo così mortificante. Certamente lo può essere col suo consenso, cioè se i
poeti accettano di limitare la loro funzione
a una poetica dell’intimismo, al ripiegamento della loro personalità su se
stessa, se davvero rinunciano ad una loro funzione sociale, di partecipazione
alla costruzione della parte più profonda della nuova umanità. Non dovrebbero.
Di
fronte ad un mondo così alienante e sempre più tecnicizzato, i poeti dovrebbero
costituire la forza più reattiva per sommuovere il mondo affettivo e
relazionale dell’uomo, certamente non per contrapporlo a quello della tecnica,
ma per affrancarne la dimensione spirituale e rafforzare la libertà dell’uomo a
fronte di un potere finanziario che minaccia di diminuirne le possibilità di
sviluppo in un futuro sempre più tenebroso..
giovedì 3 maggio 2012
IERI E OGGI
Le grandi cose
passano. Le mediocri ritornano. Come le mode. I grandi della poesia epica,
quelli dei poemi cavallereschi e quelli della poesia lirica stanno lì, nella
storia, come monumenti solitari, inarrivabili, ma fuori dal nostro tempo. Ritornano
invece sull’orma di qualche grande gli
imitatori, con pretese innovazioni che sono invece soltanto variazioni. Prendiamo ad
esempio il principio enunciato dal Marino “E’ del poeta il fin la
meraviglia…Chi non sa far stupir vada alla striglia”. Quelli che ne seguirono
le orme esasperarono le immagini in metafore insensate. Furono davvero
mediocri. Di Claudio Achillini si può riportare il verso “Sudate o fochi a
preparar metalli” (per cui i fuochi si misero a sudare) o anche la cervellotica
metafora “Della padella del ciel la gran frittata”( per cui il cielo si fece
padella e la luna apparve una frittata!). Così procede per metafore sbilenche e
stralunate. Del medesimo riporto qui il seguente sonetto sulla donna che si
pettina.
Onde dorate, e l’onde eran capelli,
navicella d’avorio un dì fendea;
una man pur d’avorio la reggea
per questi errori prezïosi e quelli;
e, mentre i flutti tremolanti e belli
con drittissimo solco dividea,
l’òr de le rotte fila Amor cogliea,
per formarne catene a’ suoi rubelli.
Per l’aureo mar, che rincrespando apria
il procelloso suo biondo tesoro,
agitato il mio core a morte gìa.
Ricco naufragio, in cui
sommerso io moro,
poi ch’almen fûr, ne
la tempesta mia,
di
diamante lo scoglio e ’l golfo d’oro.
Certe
variazioni formali del marinismo, le peggiori , mi pare che siano tornate in
certa poesia del secolo scorso e in quella del presente. Anche se con
motivazioni diverse dalla “meraviglia” mariniana. A leggere l’accozzaglia di metafore di poeti
che vanno per la maggiore e di poetastri che li imitano vengono giramenti di
testa. Non si capisce più se siamo ubriachi noi che leggiamo o se essi, prima
di scrivere, si siano rimpinzati dei vari fumi, mentali o solo culturali, che
avviluppano la vita e la cultura del nostro tempo. Con un’aggravante: invece che
in versi, scrivono in prosa spezzettata di a capo.
lunedì 23 aprile 2012
UN MIO
SONETTO PER IL 25 APRILE
AI REVISIONISTIVoi amanti d’un perfido potere
A noi tutti che fummo testimoni
Di torture e di brute impiccagioni
Lasciateci morire in miserere.
Usando il vostro solito mestiere
Farete poi le vostre revisioni
Confezionando storiche nozioni
Nei libri poi stampate come vere.
Fatta in frottole
simili è la storia
A tonde palle degli stercorari
Prodotta dalle penne menzognere.
A tonde palle degli stercorari
Prodotta dalle penne menzognere.
A noi che abbiamo viva
la memoria,
Pazientando un po’, siamo ormai rari,
Risparmiateci il falso in miserere.
Pazientando un po’, siamo ormai rari,
Risparmiateci il falso in miserere.
domenica 22 aprile 2012
Un mio sonetto polemico
IERI
E OGGI Vogliamo dir cos’erano i poeti
Nei tempi dei signori e dei baroni?
Erano allora pifferi e tromboni
Al servizio dei nobili e dei preti.
Ora i magnati vogliono mansueti
Prosatori che svolgano missioni
In carta e video a tessere ragioni
Secondo gli interessi assai discreti.
Altro che carmi ed inni o poemetti!
Ci vogliono ora articoli ben chiari,
Scemenze varie moniti e fischietti
Da rifilare con modi solari
In momenti opportuni o maledetti
Per battaglie nel regno dei denari.
sabato 21 aprile 2012
LA FUNZIONE DELLA POESIA 2
Il sistema capitalistico-industriale segna il nostro tempo. Per il suo sviluppo, consolidamento e accumulazione del guadagno esso ha bisogno della tecnica e della deregolamentazione giuridico-amministrativa, indicata come liberalizzazione e che in ultima analisi si risolve in atteggiamenti individualistico-radicali. Per la sua affermazione non ha bisogno della cosiddetta cultura classico-umanistica. Tanto meno ha bisogno della poesia. Che cosa se ne possono fare le industrie e le banche delle emozioni e delle creazioni poetiche? Per l’acquisizione del consenso operativo, ad esse occorrono formule, insegne, slogan, grafici, linguaggi e immagini computerizzate, molto più efficaci delle figure che i pittori del Seicento dipingevano nelle cappelle di campagna per piegare le coscienze delle popolazioni del contado al catechismo e alla paura delle fiamme dell’inferno propagandati dal concilio tridentino.
Che se ne può fare il sistema capitalistico-industriale della poesia? Semmai esso può solo fornire la spinta a una cultura della deregolamentazione/liberalizzazione dei canoni poetici naturali, cioè a sciogliere quegli elementi specifici che distinguono la poesia dalla prosa, con il conseguente sfascio delle forme poetiche. Semmai esso può solo fornire la spinta, conseguentemente, verso la massificazione della produzione poetica con l’offerta della stampa a basso costo per trarne i suoi benefici e i suoi guadagni, senza curarne una selezione di valore e disinteressandosi di una sua effettiva diffusione capillare. Nell’indifferenza per la dimensione culturale e per le diverse arti , anche visive - salvo qui eventuali investimenti per capitalizzazioni finanziarie - soprattutto nella noncuranza per quella che gli idealisti ancora nel Novecento indicavano come dimensione spirituale.
In questo sistema la poesia non può che essere residuale, con buona pace di coloro che ancora la credono viva ed operativa nella cultura attuale, con distacco di intellettuali simili a sacerdoti di rito industrialbancario che officiano affaccendati nel dire il già detto in videocomparsate e in pagine di nuvole aristofanesche.
Il sistema capitalistico-industriale segna il nostro tempo. Per il suo sviluppo, consolidamento e accumulazione del guadagno esso ha bisogno della tecnica e della deregolamentazione giuridico-amministrativa, indicata come liberalizzazione e che in ultima analisi si risolve in atteggiamenti individualistico-radicali. Per la sua affermazione non ha bisogno della cosiddetta cultura classico-umanistica. Tanto meno ha bisogno della poesia. Che cosa se ne possono fare le industrie e le banche delle emozioni e delle creazioni poetiche? Per l’acquisizione del consenso operativo, ad esse occorrono formule, insegne, slogan, grafici, linguaggi e immagini computerizzate, molto più efficaci delle figure che i pittori del Seicento dipingevano nelle cappelle di campagna per piegare le coscienze delle popolazioni del contado al catechismo e alla paura delle fiamme dell’inferno propagandati dal concilio tridentino.
Che se ne può fare il sistema capitalistico-industriale della poesia? Semmai esso può solo fornire la spinta a una cultura della deregolamentazione/liberalizzazione dei canoni poetici naturali, cioè a sciogliere quegli elementi specifici che distinguono la poesia dalla prosa, con il conseguente sfascio delle forme poetiche. Semmai esso può solo fornire la spinta, conseguentemente, verso la massificazione della produzione poetica con l’offerta della stampa a basso costo per trarne i suoi benefici e i suoi guadagni, senza curarne una selezione di valore e disinteressandosi di una sua effettiva diffusione capillare. Nell’indifferenza per la dimensione culturale e per le diverse arti , anche visive - salvo qui eventuali investimenti per capitalizzazioni finanziarie - soprattutto nella noncuranza per quella che gli idealisti ancora nel Novecento indicavano come dimensione spirituale.
In questo sistema la poesia non può che essere residuale, con buona pace di coloro che ancora la credono viva ed operativa nella cultura attuale, con distacco di intellettuali simili a sacerdoti di rito industrialbancario che officiano affaccendati nel dire il già detto in videocomparsate e in pagine di nuvole aristofanesche.
sabato 14 aprile 2012
lunedì 9 aprile 2012
LA
FUNZIONE DELLA POESIA
Anche ai semplici lettori mi pare che possa
accadere di chiedersi quale sia la funzione della poesia. Porsene la domanda mi
sembra invece necessario per chi abbia voglia di scrivere versi con
consapevolezza delle ragioni, dei fini, degli strumenti e dei modi che connotano la poesia.Certamente alla radice della scrittura poetica c’è l’esigenza primaria dell’espressione delle cariche emotive dell’uomo; esigenza che nei tempi oscuri della storia coincise col canto e con la musica, per cui si motivarono le misure dei versi, i loro ritmi e le strofe, facendo nascere la poesia come arte specifica.
La poesia però non è solo espressività dei moti dell’animo. E’ anche strumento di comunicazione religiosa, come negli inni sacri e nei salmi. Ed è anche, forse soprattutto, strumento di enunciazione e diffusione delle idee, di contenuti culturali, come con Lucrezio e Dante, di sviluppo e consolidamento delle idee nazionali e del potere, come con Virgilio e Orazio nell’antichità e come con Carducci più recentemente; di propaganda più o meno palese insomma.
La diffusione della poesia certamente era legata alle potenzialità della sua memorizzazione per effetto del ritmo, delle rime e delle strofe, che ne facilitavano anche l’apprendimento e la declamazione specialmente in tempi di analfabetismo strumentale, quando era cantata e recitata anche dai ceti popolari, persino nei paesi dei contadini.
Le classi dirigenti che ne usufruivano come strumento di persuasione, di consenso e di potere, però già al principio del secolo scorso avevano trovato strumenti ben più efficaci e alternativi di comunicazione di massa nella stampa, nella radio e poi nel cinema, sia per la capillarità di diffusione sia per l’enorme capacità di coinvolgimento popolare.
Ne pagò subito il prezzo Rapisardi, osannato fino a pochi anni prima e oscurato e dimenticato subito dopo la morte. Ne fu poi testimone più ancora l’ermetismo, quando i poeti ormai erano isolati ed emarginati dal mercato culturale. Da allora la poesia à stata quasi espulsa dai cataloghi editoriali e si è limitata e racchiusa in un’esperienza solipsistica, in uno sperimentalismo parossistico, in un’ubriacatura della metafora. Quale può essere oggi la funzione della poesia così condizionata dai tanti nuovi linguaggi apparsi e ormai d’uso comune con lo sviluppo tecnologico e con la produzione dei nuovi mezzi elettronici? Quale nei tempi del cellulare, di Twitter e di Facebook?
Ce lo dobbiamo chiedere, se davvero vogliamo ancora utilizzare il linguaggio poetico con la consapevolezza che esso richiede.
giovedì 5 aprile 2012
ALTRO MIO SONETTO
I politici parlano ai politici
Ed i poeti parlano ai poeti,
Ovunque i preti parlano coi preti,
Ed i critici parlano coi critici.
E questo avviene sin dai tempi mitici,
In pace e in guerra, in chiese e minareti,
Fuor dai palazzi e dentro le pareti:
Gli uni e gli altri a capirsi sempre stitici.
Fingono tutti ovunque di capire
E di farsi capire; ed è il pensiero
Un modo ch'è per dire e per non dire.
Così è che la parola è velo al vero,
Or per coprire ed ora per mentire
Per egoismo e cuore non sincero.
domenica 25 marzo 2012
L'OTTAVA
L'ottava, detta anche ottava rima (es. poema in ottava rima)
è una strofa formata da otto endecasillbi: i primi sei a rima
alternata e gli ultimi due a rima baciata.
Cominciò ad usarla il Boccaccio nella poesia narrativa, poi
divenne la forma strofica dei poemi cavallereschi: del Pulci,
del Boiardo, dell'Ariosto, del Tasso, poi anche del poema
eroicomico del Tassoni, di altri poemi e poemetti.
Caduta in disuso nella poesia letteraria, l'ottava è restata
viva nella poesia popolare, particolarmente come forma
specifica dei poeti a braccio.
Riporto qui di seguito una composizione in due ottave
di mio padre, morto nel 1981, in cui si colgono vari
riecheggiamenti di forme auliche, ma con pensieri
ricchi di riferimenti attuali.
AGLI ASTRONAUTI
Voi che avete l'occhio tanto lungo
E la mente acuta fissa su nel cielo,
Tutto saper volete a punto a punto
Quel ch'è coperto dal segreto velo;
Io dal vostro voler non mi disgiungo,
Le strane cose vostre io non querelo,
Ma credo che l'impresa sarà vana,
Che più si vuol più il vero s'allontana.
Voi volete andare sulla Luna
Con nuovo e mirabile congegno.
Io vi dico: Vi soccorra la fortuna
E il gran Dio del ciel vi dia sostegno!
Ma ricordate che qualche lacuna
Porta sempre con sé l'umano ingegno
E che cagione l'intentata via
D'ottusa uman superbia non vi sia!
L'ottava, detta anche ottava rima (es. poema in ottava rima)
è una strofa formata da otto endecasillbi: i primi sei a rima
alternata e gli ultimi due a rima baciata.
Cominciò ad usarla il Boccaccio nella poesia narrativa, poi
divenne la forma strofica dei poemi cavallereschi: del Pulci,
del Boiardo, dell'Ariosto, del Tasso, poi anche del poema
eroicomico del Tassoni, di altri poemi e poemetti.
Caduta in disuso nella poesia letteraria, l'ottava è restata
viva nella poesia popolare, particolarmente come forma
specifica dei poeti a braccio.
Riporto qui di seguito una composizione in due ottave
di mio padre, morto nel 1981, in cui si colgono vari
riecheggiamenti di forme auliche, ma con pensieri
ricchi di riferimenti attuali.
AGLI ASTRONAUTI
Voi che avete l'occhio tanto lungo
E la mente acuta fissa su nel cielo,
Tutto saper volete a punto a punto
Quel ch'è coperto dal segreto velo;
Io dal vostro voler non mi disgiungo,
Le strane cose vostre io non querelo,
Ma credo che l'impresa sarà vana,
Che più si vuol più il vero s'allontana.
Voi volete andare sulla Luna
Con nuovo e mirabile congegno.
Io vi dico: Vi soccorra la fortuna
E il gran Dio del ciel vi dia sostegno!
Ma ricordate che qualche lacuna
Porta sempre con sé l'umano ingegno
E che cagione l'intentata via
D'ottusa uman superbia non vi sia!
venerdì 23 marzo 2012
Un altro mio sonetto
LA FOLLA
Folla è quella che al gioco del pallone
Scuote lo stadio d'urla ad un rigore,
E' quella che ascoltando una canzone
Strilla, si pigia, invoca il suo cantore;
La stessa è che ciabatta in processione
Ed implora perdono dal Signore;
E' quella stessa che in corteo si pone
Or con giubilo grande, or con furore.
Ed è la stessa che scelta ed ordinata
In reparti con bellica armatura
Alla guerra a morire è comandata
E a dare morte. Per mia e sua natura
D'essa io estraneo, quale sia, allietata,
Minacciosa o implorante ho gran paura.
LA FOLLA
Folla è quella che al gioco del pallone
Scuote lo stadio d'urla ad un rigore,
E' quella che ascoltando una canzone
Strilla, si pigia, invoca il suo cantore;
La stessa è che ciabatta in processione
Ed implora perdono dal Signore;
E' quella stessa che in corteo si pone
Or con giubilo grande, or con furore.
Ed è la stessa che scelta ed ordinata
In reparti con bellica armatura
Alla guerra a morire è comandata
E a dare morte. Per mia e sua natura
D'essa io estraneo, quale sia, allietata,
Minacciosa o implorante ho gran paura.
giovedì 15 marzo 2012
IL SONETTO
Tutte le cose si modificano e scompaiono nel
tempo. Fuori e dentro di noi. A volte ritornano, nella sostanza, apparentemente
modificate per via della forma. Secondo le oscillazioni del gusto. A volte però
il gusto cambia radicalmente e travolge gli elementi nel dimenticatoio, come
moduli inservibili per le nuove generazioni. Nella poesia è accaduto con la
laude, col poema, con la ballata, la canzone, il sirventese, il madrigale, ecc.;
componimenti caduti in disuso e svaniti nel tempo. Non sono più tornati, anche
se D’Annunzio ha voluto chiamare laudi certe sue composizioni. Oltre che per le
altre forme poetiche, pare che stia accadendo anche per il sonetto. Da quando
per primo lo compose Iacopo da Lentini, il sonetto ha dato forma a capolavori
immensi nei secoli della nostra letteratura, da Dante e Petrarca a Foscolo e a
Carducci. Ed ha oltrepassato le Alpi per altri immensi capolavori. Notevolissimo.
Ha compattezza per il rapporto tra l’andamento logico e quello metrico e
musicale: il pensiero vi è espresso compiutamente in ogni quartina e nelle due
terzine. Richiede abilità linguistica, perizia, grande padronanza stilistica. Ma
è di grande efficacia poetica. Oltrepassarlo e abbandonarlo nello sfascio
formale della poesia odierna sembra un delitto, una perdita incommensurabile.
Ma il gusto del tempo della tecnologia sembra voglia la prosa, il dire
prosastico, al più la prosa camuffata da poesia, come nella cosiddetta prosa
poetica e, peggio, una liricità prosastica col metaforismo e gli accapo. Sembra
che con questi due ultimi ingredienti si possano cucinare grandi ricette
poetiche. Anche con pessimi cuochi. Penso che il dubbio sia lecito, anche se
assoluto.
sabato 10 marzo 2012
UN MIO SONETTO
Pubblico qui
un mio sonetto polemico sulla poesia odierna.
In quanto
polemico può sembrare eccessivo. Quel che conta però è il messaggio che vuole trasmettere
Dell’arte del poeta il vero dire
Ch’era solenne ed alto ora è dimesso,Prosastico s’è fatto per sfuggire
Il timbro che di dentro v’è connesso.
Discendere si vuole e non salire
Per l’ardua struttura che dà accesso
Al più elevato esprimere e sentire,
Sicché il verso si smembra o è soppresso.
Sull’ordine primeggia la parola
Ora obliqua ora nitida, sul metroIl ritmo che suona e che non vola.
Dal decadente a scaduto. Se questa
E’ poesia del tempo, è solo tetro
Il futuro che a noi si manifesta.
domenica 4 marzo 2012
sabato 3 marzo 2012
IL VERSO
E LA POESIA
Il fiume
scorre, ora impetuoso ora calmo, sempre comunque inarrestabile. Non valsero le intemerate del Baretti contro i
“versiscioltai”. L’uso del verso sciolto fu inarrestabile come il fiume e
consentì la produzione di capolavori quali “I Sepolcri” , “Il Giorno”, la
traduzione dell’Iliade del Monti. Ma fu foriero del verso libero e di ogni
esperimento metrico, anche di quelli più azzardati. Fu foriero della scomparsa
della rima; e foriero dell’arbitrarietà della strofa, nonché del “verso non
verso”. Infatti
oggi, per formulare un verso basta andare a capo, cioè basta fare un “non
verso”! Non sempre è così: i più
avveduti si danno da fare per inventare ritmi impossibili e stratagemmi retorici. Ma si può
ancora dire che la poesia è strutturata nella musicalità del verso?
mercoledì 29 febbraio 2012
lunedì 27 febbraio 2012
POESIA E FORMA
La forma è sostanza. Togliere la forma è togliere la sostanza. La poesia è tale perché ha una sua forma; e per avere la sua forma ha bisogno della metrica e del verso, ma opportunamente anche della rima e della strofa.
Secondo i suoi canoni, essa si è declinata nella nostra tradizione letteraria sin dalle origini come espressione linguistica sostenuta principalmente dal ritmo, da una musicalità che ne rafforza l’efficacia comunicativa. La musicalità genera una risonanza emotiva e attiva una maggiore ricchezza di sensazioni interiori per la comprensione intellettiva.
Senza la metrica, senza quel ritmo, senza quella musicalità la poesia diventa prosa, perché perde la sua forma, perde la sostanza: non è più se stessa, è altro, appunto è prosa.
L’esperienza novecentesca ha voluto concentrare la sua attenzione di volta in volta sui singoli elementi che caratterizzano la poesia: sul lirismo esasperato, sul solo suono della parola anziché sulla musicalità del verso, sulla sola retorica della metafora. La poesia così ha perso la sua integrità espressiva, la sua struttura, la sua forma: bisogna tornare indietro. Si è corsi troppo con l’avanguardia delle innovazioni e si sono perduti i pezzi. Si è distrutto il suo ordine come aveva voluto il futurismo nella sua eccessività. Occorre tornare indietro per raccogliere quei pezzi e ricomporre la struttura della poesia; della poesia stessa come forma, cioè semplicemente come poesia.
La forma è sostanza. Togliere la forma è togliere la sostanza. La poesia è tale perché ha una sua forma; e per avere la sua forma ha bisogno della metrica e del verso, ma opportunamente anche della rima e della strofa.
Secondo i suoi canoni, essa si è declinata nella nostra tradizione letteraria sin dalle origini come espressione linguistica sostenuta principalmente dal ritmo, da una musicalità che ne rafforza l’efficacia comunicativa. La musicalità genera una risonanza emotiva e attiva una maggiore ricchezza di sensazioni interiori per la comprensione intellettiva.
Senza la metrica, senza quel ritmo, senza quella musicalità la poesia diventa prosa, perché perde la sua forma, perde la sostanza: non è più se stessa, è altro, appunto è prosa.
L’esperienza novecentesca ha voluto concentrare la sua attenzione di volta in volta sui singoli elementi che caratterizzano la poesia: sul lirismo esasperato, sul solo suono della parola anziché sulla musicalità del verso, sulla sola retorica della metafora. La poesia così ha perso la sua integrità espressiva, la sua struttura, la sua forma: bisogna tornare indietro. Si è corsi troppo con l’avanguardia delle innovazioni e si sono perduti i pezzi. Si è distrutto il suo ordine come aveva voluto il futurismo nella sua eccessività. Occorre tornare indietro per raccogliere quei pezzi e ricomporre la struttura della poesia; della poesia stessa come forma, cioè semplicemente come poesia.
martedì 10 gennaio 2012
In quest'ultimo secolo la poesia ha
attraversato il futurismo, il frammentismo e l'ermetismo. Si è concentrata
sul suono della parola e sulla parola stessa in un lirismo parossistico. Ed
ha trascurato la sua stessa struttura, cioè proprio ciò che la rende epistemologicamente
tale per sua natura..
Qui essa sta in trincea, si pone in una ridotta, in un fortilizio di retroguardia, per custodire, se non per recuperare, la sua forma per come come si è sviluppata dai primordi con Venanzio Fortunato a ieri, con la sua prosodia, secondo gli schemi della metrica accentuativa e gli strumenti via via acquisiti in versi, rime, strofe e generi di composizione. Per non essere sgretolata e divenire residuale in un mondo tanto tecnologicamente sviluppato quanto sempre più avviluppato in grovigli di nuove strutture alienanti. |
Iscriviti a:
Post (Atom)