LA RIMA
IN TRILUSSA
Ancora una volta, ad una rilettura recente, mi è sembrato naturale
riflettere sugli aspetti più significativi della poesia di
Trilussa: quelli che vanno dalle sue deviazioni dall’ortodossia del dialetto
romanesco autentico e trasteverino, come rimproveratogli dal Chiappini, al
valore formale della rima nella sua
poesia.
Qui mi voglio soffermare assai succintamente proprio su quest’ultimo aspetto. Mi pare
giusto affermare in proposito che la rima nella poetica di Trilussa non è un
elemento accessorio della forma, ma è
coessenziale alla strutturazione del verso, della strofe, della composizione nel suo afflato creativo. E
neanche è un elemento sovrabbondante del verso, un qualcosa di aggiuntivo e di
ornamentale, quando è invece una nota musicalmente
funzionale all’efficacia dell’unità e integrità del discorso poetico.
Questa funzionalità spontanea mi pare che si possa esemplificare con il suo
ricorso alla rima nell’interno di molti endecasillabi, costruiti ciascuno con
la somma di due versi, in modo che alle rime poste alla fine dei versi si
aggiungono qua e là anche le rime nel corpo stesso del singolo endecasillabo. Cito qui di seguito a
caso:
“Forse farò ribrezzo,
Ma so’ tutto d’un pezzo/ e ce rimango!” (endecasillabo = settenario
rimato + quaternario).
“Ma er Sorcetto,
che s’era già anniscosto
Non ve
dico a che posto/ j’arispose” (endecasillabo = settenario rimato +
quaternario).
“Me sdraio su la riva e guardo l’acqua
Che me risciacqua/ tutti li pensieri” (endecasillabo = quinario rimato +
senario)
Si
potrebbe pensare che Trilussa, con queste rime nel mezzo dell’endecasillabo, abbia
voluto usare un espediente retorico per l’ornamento musicale, come rinforzo della sonorità della rima. Ma allora questa
avrebbe solo il senso di un fronzolo. Non mi pare che sia così, perché essa vi scaturisce con la naturalezza del
discorso ed è espressione di pura creatività poetica.
Infatti la rima non è che un elemento
musicale connaturato col verso accentuativo. E questo lo è stato e lo è ancora
per tutta la nostra poesia; sin dai tempi di Giustino Fortunato, con cui si
abbandona il ritmo del verso quantitativo. E’ nella nostra contemporaneità che
si cerca di eliminarla in quanto ritenuta ostacolo alla pura spontaneità dell’espressione
poetica, in nome di un lirismo parossistico, che è solo un malinteso della
natura della poesia.
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