COME ERANO
(e come siamo rimasti dopo circa
due secoli)
Ho aperto un volume del Belli a caso, come spesso mi accade con alcuni
libri, ed ho letto il sonetto che
riporto qui di seguito.
IL CARRETTIERE
DELLA LEGNARA
Pe’ la soccita mia de
la vittura
De li carretti da
carcà la legna,
M’è toccato a girà ‘na
svojatura
De cinque
tribbunali de la fregna.
Sortanto pe’ la carta
de conzegna,
L’A.C. du vorte, e dua
l’Inzegnatura!
Po’ in Campidojo, e in
Rota, e in zepportura,
Che
s’ignottischi sta razzaccia indegna.
Poi, come sto llì llì
pe’ la sentenza,
Viè er Fiscal de le
Ripe, e in du’ segnetti
Scassa tutto e jè dà
d’incompitenza.
E io ‘ntanto, co’ tutti
sti giretti,
Co’ sto sciupio de
tempo e de pacenza,
Vinse la lite e nun ciò
più carretti.
Roma, 4 dicembre 1832.
Per bocca di un popolano, dunque, il Belli ci descrive, tra polemica e
satira, i garbugli della burocrazia e della giustizia amministrativa del suo
tempo e dello stato papalino. Vi si legge da una parte la rabbia del cittadino
angariato (in questo caso un carrettiere che chiede i suoi diritti in ordine
alla licenza di vettura per il trasporto della legna con una sua società =
“soccita”) e dall’altra il passaggio obbligatorio e vessatorio da un ufficio
all’altro, come alle forche caudine, per l’esecuzione della pratica e per
dirimere e giudicare nel merito della lite.
In calce al sonetto, trovo una nota in cui si riporta quanto dice il
Farini in merito a quegli uffici. Vi leggo che “l’Inzegnatura”, di cui appunto
parla il Belli, cioè il Tribunale della Segnatura, era presieduta da un
cardinale ed era composta da otto
prelati, ciascuno remunerato con cinquanta scudi mensili (una bella cifra per
quel tempo!). Dice anche il Farini che quel Tribunale non godeva di buona fama,
tanto che (lo dice sempre la stessa nota) un giudice nel 1845 falsificò una
sentenza: è vero che per questa colpa poi fu cacciato, ma con l’assegno di una
pensione di cinquanta scudi mensili!
E’ il caso appena di osservare che dopo due secoli circa, dopo la fine
dello stato papalino, dopo l’unità d’Italia, dopo la Resistenza, ecc. ecc. le
cose non sono cambiate di molto: resta il cittadino vessato che viene mandato
da un ufficio all’altro e che perde tempo, denaro, paga le tasse; e resta la
burocrazia che non viene mai smantellata o almeno snellita nelle sue matasse
ingarbugliate, perché così come è fatta
fa tanto comodo al potere, a quello del passato e a quello del presente. .
Oltre questa considerazione di merito, sui contenuti, me ne viene una
formale, ma non marginale, come potrebbe sembrare a prima vista: la poesia del
Belli aveva un’efficiente funzione di satira, di sberleffo, di condanna, verso il potere ed i costumi del suo tempo,
insomma era viva ed operativa. Oggi invece la poesia non sembra più avere
alcuna funzione in una società che si esprime con vignette, sms, tweets, ecc. ecc. Forse la poesia non è più
in grado di esprimere sentimenti e passioni in una società che semplifica e
annulla tutto nell’immediatezza. Forse la poesia è davvero finita! Specialmente
quella satirica, sostituita, come pare, dalle battute dei comici e dalle
vignette dei disegnatori sui giornali.