martedì 20 maggio 2014


                    ANCORA SULLA POESIA POPOLARE
   Nell’attenzione alla poesia popolare, mi pare opportuno porre in rilievo l’importanza del suo ruolo nella società in cui essa si esprimeva in passato e da cui essa traeva la sua vitalità: una società prevalentemente agricola e pastorale, ma anche identificabile  negli strati più bassi e marginali delle popolazioni urbane.
   Una società che tra l’Ottocento e il Novecento si caratterizzava per le ristrettezze economiche e soprattutto per la povertà culturale, che, specialmente nell’Ottocento, era segnata dall’analfabetismo strumentale, cioè dall’ignoranza della scrittura, della lettura e del calcolo aritmetico.
   Una società che si circoscriveva all’ambiente di vita degli abitanti, al loro luogo di nascita, che era anche quello di lavoro, di vita e di morte di ciascuno; le cui conoscenze, quindi, erano limitate alle esperienze dirette, di vita vissuta, o tramandate oralmente da una generazione all’altra; e la cui circolazione d’idee e d’informazioni  ben di rado superava l’orizzonte del luogo d’esperienza. Anche una società, quindi, che si nutriva di leggende, di miti, di credenze, di superstizioni e di tradizioni secolari.
   Accanto alle prediche, ai tridui, alle novene, alle processioni delle confraternite, che animavano la vita comunitaria, la poesia  svolgeva davvero un ruolo di grande significato, sia come spettacolo e gioco nelle osterie,  nei giorni di  festa, sia come trasmissione d’informazioni e conoscenze, che venivano memorizzate facilmente con l’aiuto di ritmi, di rime e strofe, sia come mezzo di dirozzamento dei costumi per un’educazione della mente e dell’animo dei contadini e dei  pastori non di rado analfabeti.
    In questo quadro, la poesia  rispondeva, quindi, alla fame di conoscenze e di semplici  informazioni, con cui  il popolo poteva crescere anche nella sfera emotiva, affettiva e morale.
   Specialmente nell’Ottocento, l’informazione era facilitata da piccole e grosse tipografie, che stampavano libriccini e foglietti volanti con su poemetti e narrazioni in versi per cantastorie, che li diffondevano specialmente nelle feste, nei mercati e nelle fiere.
  Generalmente erano composizioni create da poeti popolari ed anche da autori avveduti; da poeti semianalfabeti o addirittura analfabeti che, per istinto, per doti assolutamente naturali non di rado raggiungevano sprazzi di effettiva arte poetica.
   Per questi ultimi mi riferisco, per esemplificare, all’analfabeta e pecoraia dell’Alto Pistoiese Beatrice Bugelli e al romano macellaio e ceraiolo  Pietro Capanna, più noto come Sor Capanna, che divenne quasi cieco per una vampata della caldaia in cui si scioglieva la cera, per cui, non potendo più lavorare, si fece cantastorie.
  Della Beatrice Bugelli ne ho già parlato, riportandone due ottave improvvisate nel suo canto a braccio o in un contrasto poetico. Le avevo trascritte come esempio della sua sensibilità lirica e della sua abilità compositiva. Qui invece voglio sottolinearne la capacità nell’uso dell’artificio retorico, con cui si porta alle soglie della poesia d’arte superando i limiti di quella popolare.  
   Nella prima di quelle due ottave, l’uso sapientemente retorico delle immagini ripetute e variate con cui compara il suo dolore interiore  a quello dello schiavo che porta la catena al braccio, poi al collo e poi ancora al piede, per concludere, intendendo quella catena: “E io la porto al cor che niun la vede”.
    La seconda ottava, ha immagini sapientemente allusive e così retoricamente ben  poste  con l’uso di antonimie (“Chi m’ha ferito m’abbia a medicare”) che sembra di leggere una poesia di uno dei migliori marinisti, senza però gli eccessi del marinismo.
  Diversa è invece l’inventiva di Pietro Capanna, poiché espressa nell’originalità della  struttura compositiva,  di cui egli si avvale per esprimere lo spirito del Rugantino romanesco, la satira e lo sberleffo popolaresco dei rioni più tipicamente tradizionali. Struttura che ha dato luogo a una nuova maniera poetica, cioè alla cosiddetta maniera “der sor Capanna”, praticata da altri autori di poesia popolare, fra cui anche Petrolini.  
    Sono composizioni che vengono in genere definite come stornelli, poiché sono create a braccio e cantate con l’accompagnamento della chitarra, ma che differiscono dagli stornelli sia nel canto che nella struttura, composta come segue:
una quartina in endecasillabi a rima alternata, seguita da due ottonari a rima baciata, cui seguono, legati tra loro in rima baciata, un quinario e poi ancora un endecasillabo in chiusura. Nel canto, questi due ultimi versi vengono ripetuti.  Esemplifico qui di seguito riportando una composizione che pare sia opera di Petrolini:

Appena cominciò l'inno reale
La gente ner teatro s'arzò in piede;
Sortanto Giovannino lo spezziale
Essendo un sovversivo restò a sede.
Tutti dissero "A la porta!",
Lui rispose "Che me'mporta?
Me fa piacere:
Mantengo li principi in der sedere.


Viene ora da domandarsi se è ancora possibile una poesia popolare nel nostro tempo; più precisamente se ancora oggi è possibile una funzione della poesia popolare.
  Intanto dobbiamo constatare che ciechi e disgraziati non si trovano più nelle condizioni economiche pietose di un tempo. Comunque né loro né chiunque altro, in tempi di internet, potrebbero più avere  un loro specifico ruolo di mediatori nella diffusione e nella circolazione della produzione poetica popolare. Né vi sono più bovari e pecorai e contadini e popolani interessati a leggere e cantare e ascoltare storie di fatti tragici e mirabolanti come nel passato.
   Oltre ai mezzi di produzione, con le nuove tecnologie sono cambiati i mezzi di diffusione e circolazione delle informazioni e delle idee; ed i nuovi mezzi e le nuove tecnologie hanno cambiato la società, che si è articolata e strutturata ben diversamente dal passato con l’urbanizzazione, la globalizzazione e la pervasività della strumentazione elettronica, specialmente nell’informazione.  
   A che cosa può servire più oggi la poesia popolare? Con i mezzi sono cambiati, oltre alle modalità espressive, anche  gli interessi e i contenuti,  per cui la classe popolare oggi crea i suoi miti, i suoi eroi e i suoi cantori in altri campi, specialmente nello sport e nella televisione, in cui trova facilitata la soddisfazione dei suoi sogni e delle sue fantasie. Occorre solo prenderne atto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

martedì 13 maggio 2014


                                        POESIA POPOLARE
   Non è facile definire ciò che s’intende per poesia popolare. Nell’ arte plastico-visiva e nella musica, vari generi hanno trovato la  definizione sotto varie diciture che indicano la loro qualità di popolare. Come nel caso di certi fenomeni qualificati semplicemente  “pop”, oppure come “pop music” o come “pop jazz”, mentre sembra sfuggire ormai chiaramente ad una qualificazione davvero di arte popolare la cosiddetta “pop art”.
   D’altra parte sembrerebbe più facile parlare di poesia popolare riguardo al passato, che non all’oggi, quando ormai la poesia tutta sembra non avere più alcun rilievo presso il popolo, ridotta com’è  ad un fatto del tutto personale ed individualistico: davvero ben pochi leggono i poeti, davvero ben pochi ricercano emozioni nella poesia odierna.
    Molto è stato determinato dalla progressiva e rapida innovazione e diffusione dei mezzi di comunicazione di massa. Infatti  in questi mezzi il popolo ha trovato più stimoli per la sua sensibilità verso forme comunicative ed espressive più dirette ed immediate, che non passano attraverso la penna e la rotativa.
    Non possiamo dimenticare in proposito che la pittura nelle chiese e la poesia  per i ceti poveri scarsamente o non affatto alfabetizzati, nel passato, sono stati gli strumenti comunicativi più efficaci per l’educazione del popolo.
   In poesia, la funzione delle strofe e delle rime non aveva solo valore intrinseco nella struttura poetica: strofe e rime facilitavano anche fortemente la memorizzazione del testo poetico anche in chi aveva scarsa dimestichezza con la lettura e la scrittura.
   Forse  questa facilità di memorizzazione e la disponibilità al canto hanno sollecitato anche gli analfabeti delle campagne ad acquisire cognizioni e sensibilità verso forme culturali che ne hanno ingentilito e nobilitato l’animo. D’altra parte ne hanno sollecitato la capacità creativa, per cui essi stessi sono diventati improvvisatori ed anche scrittori, seppur sempre a livello popolare.
   Di questi improvvisatori e scrittori, appartenenti al popolo e di cultura assolutamente popolare, se ne potrebbe davvero citare  un numero grandissimo, anche di significativi, a cominciare dalla pastora analfabeta Beatrice Bugelli, detta Beatrice del Pian degli Ontani, che suscitò persino l’interesse di molti letterati, a cominciare dal Tommaseo, dal Pascoli, dal D’Azeglio e tanti altri; per proseguire con Gian Domenico Peri, poeta dell’Amiata, vissuto nel Seicento e diventato addirittura poeta di corte del Duca Cosimo II; per proseguire ancora con Angelo Pii, detto il Poetino, pure dell’Amiata, che compose un poema in ottava rima di dodici canti in cui narrava le vicende di Davide Lazzaretti, detto il profeta dell’Amiata; per proseguire ancora con Giuseppe Moroni, detto il Niccheri, il cui poemetto “Pia de’ Tolomei” ebbe tanto successo che l’editore Salani ne vendette 70.000 copie (entità ingentissima per l’Ottocento) e le cui ottave ancora nella mia gioventù io sentivo cantare dai bovari  del mio paese.
  Accanto a questo filone di cantori e poeti popolari non va trascurato il filone della poesia popolare degli autori e cantastorie orbi, che si accompagnavano con vari strumenti musicali, soprattutto con la chitarra. Di solito questi erano anche cantautori e cantastorie  ambulanti che si spostavano da luogo a luogo, da paese a paese, che cantavano storie di fatti eccezionali, drammatici, tragici, non solo per raccogliere offerte ma anche per vendere i testi cantati e stampati da notissime case editrici del tempo, quali la Campi di Foligno, la Salani di Firenze, la tipografia Reggiolese.
  Per esemplificare e sottolineare qui il valore di tanti poeti popolari, mi piace trascrivere qui un saggio della sensibilità lirica e dell’abilità compositiva  dell’improvvisatrice analfabeta e pecoraia Beatrice Bugelli:
Se tu sapessi la vita ch’io faccio,
Non la farebbe il Turco alla catena.
E ’l Turco porta la catena al braccio
E io la porto al cor per maggior pena.
E ’l Turco porta la catena al collo,
E io la porto al cor, ch’è maggior doglio.
E ’l Turco porta la catena al piede,
E io la porto al cor che niun la vede.

Quella finestra, fatta a colonnello,
Quanto sospiri m’ha fatto gettare!
Tu m’hai ferito il cor con un coltello,
Non trovo chi mi voglia medicare.
E ’l medico m’ha messo a tal partito,
Che m’abbia a medicar chi m’ha ferito.
E ’l medico m’ha messo a un partito tale
Chi m’ha ferito m’abbia a medicare.

     Voglio solo sottolineare come in queste due ottave improvvisate risalta il linguaggio popolare del parlare toscano, spoglio delle raffinatezze che lo contraddistinguono dal linguaggio letterario; e come nello stesso tempo sgorga limpido il canto che esprime l’impeto dei sentimenti e delle emozioni  dell’animo di una donna: davvero una composizione ricca di fascino poetico. Ma la mia più grossa meraviglia è che questo fascino l’ha creato un’analfabeta!