giovedì 15 marzo 2012


                                                              IL SONETTO
   Tutte le cose si modificano e scompaiono nel tempo. Fuori e dentro di noi. A volte ritornano, nella sostanza, apparentemente modificate per via della forma. Secondo le oscillazioni del gusto. A volte però il gusto cambia radicalmente e travolge gli elementi nel dimenticatoio, come moduli inservibili per le nuove generazioni. Nella poesia è accaduto con la laude, col poema, con la ballata, la canzone, il sirventese, il madrigale, ecc.; componimenti caduti in disuso e svaniti nel tempo. Non sono più tornati, anche se D’Annunzio ha voluto chiamare laudi certe sue composizioni. Oltre che per le altre forme poetiche, pare che stia accadendo anche per il sonetto. Da quando per primo lo compose Iacopo da Lentini, il sonetto ha dato forma a capolavori immensi nei secoli della nostra letteratura, da Dante e Petrarca a Foscolo e a Carducci. Ed ha oltrepassato le Alpi per altri immensi capolavori. Notevolissimo. Ha compattezza per il rapporto tra l’andamento logico e quello metrico e musicale: il pensiero vi è espresso compiutamente in ogni quartina e nelle due terzine. Richiede abilità linguistica, perizia, grande padronanza stilistica. Ma è di grande efficacia poetica. Oltrepassarlo e abbandonarlo nello sfascio formale della poesia odierna sembra un delitto, una perdita incommensurabile. Ma il gusto del tempo della tecnologia sembra voglia la prosa, il dire prosastico, al più la prosa camuffata da poesia, come nella cosiddetta prosa poetica e, peggio, una liricità prosastica col metaforismo e gli accapo. Sembra che con questi due ultimi ingredienti si possano cucinare grandi ricette poetiche. Anche con pessimi cuochi. Penso che il dubbio sia lecito, anche se assoluto.

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