IL SONETTO
Tutte le cose si modificano e scompaiono nel
tempo. Fuori e dentro di noi. A volte ritornano, nella sostanza, apparentemente
modificate per via della forma. Secondo le oscillazioni del gusto. A volte però
il gusto cambia radicalmente e travolge gli elementi nel dimenticatoio, come
moduli inservibili per le nuove generazioni. Nella poesia è accaduto con la
laude, col poema, con la ballata, la canzone, il sirventese, il madrigale, ecc.;
componimenti caduti in disuso e svaniti nel tempo. Non sono più tornati, anche
se D’Annunzio ha voluto chiamare laudi certe sue composizioni. Oltre che per le
altre forme poetiche, pare che stia accadendo anche per il sonetto. Da quando
per primo lo compose Iacopo da Lentini, il sonetto ha dato forma a capolavori
immensi nei secoli della nostra letteratura, da Dante e Petrarca a Foscolo e a
Carducci. Ed ha oltrepassato le Alpi per altri immensi capolavori. Notevolissimo.
Ha compattezza per il rapporto tra l’andamento logico e quello metrico e
musicale: il pensiero vi è espresso compiutamente in ogni quartina e nelle due
terzine. Richiede abilità linguistica, perizia, grande padronanza stilistica. Ma
è di grande efficacia poetica. Oltrepassarlo e abbandonarlo nello sfascio
formale della poesia odierna sembra un delitto, una perdita incommensurabile.
Ma il gusto del tempo della tecnologia sembra voglia la prosa, il dire
prosastico, al più la prosa camuffata da poesia, come nella cosiddetta prosa
poetica e, peggio, una liricità prosastica col metaforismo e gli accapo. Sembra
che con questi due ultimi ingredienti si possano cucinare grandi ricette
poetiche. Anche con pessimi cuochi. Penso che il dubbio sia lecito, anche se
assoluto.
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