lunedì 22 febbraio 2021

 

                                    OMAGGIO  A  DANTE. 1321 - 2021

                                                LA  SELVA  OSCURA

   Anche con la manifestazione di semplici opinioni personali, al di fuori dai soliti schemi della cosiddetta critica classica, mi sembra si possa proporre un rispettoso e doveroso ossequio al Sommo Poeta nel settecentesimo anniversario della sua morte.

   Anzi, pur nella veste di semplice lettore, mi pare di essere obbligato a parlarne, anche senza averne il crisma storicoletterario. Come era lecito ai semianalfabeti bovari e pecorai cantare i versi della Commedia nei campi, come ricordo avveniva ancora tra le due guerre mondiali, pur senza che sapessero di lettere e retorica, penso che anche io, da semplice lettore, oggi possa e debba formulare opinioni e giudizi, condivisibili o meno, concordi o meno con i giudizi dei critici, cui è riconosciuta giustamente l’autorità nelle lettere. Non mi sembra giusto, infatti, che a poter parlare di critica letteraria, anche a riguardo di Dante, possano essere soltanto loro, cioè i critici.

  Certamente non mi sembra facile ragionare intorno al vastissimo mondo dantesco; né mi pare semplice orientarmi dentro un orizzonte in cui si aprono innumerevoli prospettive d’interesse. A me basta però accennare brevemente solo a qualche aspetto, a qualche particolare che si pone alla mia attenzione con più risalto. Forse di più non saprei.

   Confesso che ciò che mi suscita un senso di soddisfazione nella lettura dantesca è quel largo respiro che provo quando riesco a liberarmi dell’ammasso di note e di sottigliezze critiche, che ad ogni pagina e verso si mostrano in sovrabbondanza, e che si ripetono e sovrappongono quasi sempre col solito senso di pesantezza, se non d’intralcio e noia.

   Il mio piacere nella lettura è di poter pensare e dire cose che potrebbero essere anche banali, forse anche non condivisibili da molti o da tutti, ma frutto di personali riflessioni, dei miei sentimenti, delle mie opinioni, cercando però di leggere e capire sempre quel che effettivamente Dante ci dice del suo tempo e del suo mondo.

  Ad esempio, voglio dare qui un cenno, solo un cenno, su Beatrice, in riferimento a quanto i critici ne vogliono ostinatamente l’identificazione con una donna reale, con la Beatrice Portinari, che forse il Poeta non avrà mai conosciuta e forse mai vista. Come se i poeti, secondo loro, debbano per mestiere attenersi al reale, invece che per loro stessa natura correre dietro l’immaginazione creativa, anche per la personificazione di un sentimento, di un ideale, di un valore.

  In proposito mi voglio riferire a quanto dice Dante nel secondo capitolo della Vita Nova ( a parte quel che il Poeta ne fa col numero nove) “…la quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare ”. Dunque non i suoi genitori la chiamarono Beatrice, ma “molti…. che non si sapeano che si chiamare”.

   Sembra proprio di vedere un gruppo di poeti o di aderenti ad un circolo di intellettuali, che volendo personificare un’idea, o un loro ideale, discutono su quale nome dare ad un loro simbolo (“non si sapeano che si chiamare”) poi vengono in accordo di chiamarlo Beatrice. Che cosa c’entra, dunque, una donna carnale?

   Un altro aspetto che mi sembra dover discutere è quello della “selva oscura”, intesa dalla moltitudine dei critici come momento di disorientamento morale di Dante. Sarà davvero come dicono essi, per accumulo d’impressioni e deduzioni sula base di presunti dati storici, che forse hanno ben poco a che fare con la personalità e i veri problemi di un Dante?

   A me sembra davvero strano che un uomo della levatura intellettuale e morale di Dante, combattivo nella lotta politica fino a meritare la carica di priore di Firenze, abbia avuto una tale crisi morale, per cui la sua diritta via era smarrita proprio nella sua piena maturità di vita, cioè nell’età di trentacinque anni. Ma che avrà mai potuto commettere Dante? A sentire di questa sua crisi morale, sembra che egli si sia dato alla bella vita, al gioco, alle droghe, o anche alla lussuria e all’avarizia, fino a implicitamente ammettere le colpe, di cui era accusato dai suoi calunniatori.

   Invece, ed è stato scritto ben chiaramente, in quell’età, a trentacinque anni, nel 1300, l’uomo politico Dante viene accusato di numerose e bieche colpe, condannato all’esilio e bandito da Firenze con minaccia di morte. Altro che via smarrita, c’è da crepare! La calunnia delle accuse e la condanna all’esilio non producono nel Poeta un grande turbamento e una conseguente crisi di orientamento nelle sue decisioni, che implicano problemi e difficoltà enormi nella sua vita, cioè nel suo cammino e nel suo futuro? Altro che smarrimento della diritta via! Altro che selva oscura!

    Ne seguono uno smarrimento e tante sofferenze che nel suo poema poi faranno dire al suo avo Cacciaguida: “ Tu proverai sì come sa di sale | lo pane altrui, e come è duro calle | lo scendere e 'l salir per l'altrui scale.“. E se la selva di cui parla al principio dell’Opera, è il cumulo enorme e pesante dei suoi problemi e delle minacce che gli provengono dai nemici, possiamo chiederci chi fossero i nemici che  dettero origine ai gravi danni che lo tormentarono per il resto della vita.     

   Dante stesso ce li indica: sono una lupa, una lonza ed un leone che stanno in agguato nella selva. Quali nemici sono indicati simbolicamente da queste tre bestie, le cui immagini si sovrappongono l’una dopo l’altra, in modo da far pensare che esse siano alleate nell’arrecargli danno?

   Evidentemente sono tre potenze che egli non può affrontare da solo e che per opportunità, ma forse anche per esigenze poetiche, personifica nelle bestie. Son i fatti storici a indicarci i nemici rappresentati dalle tre bestie: sono i fiorentini che lo hanno esiliato, è il re di Francia alleato con il papa, sono la chiesa e il papa, che hanno determinato insieme la vittoria dei neri, la cacciata dei bianchi e l’esilio di Dante.

   Il Poeta si sente perduto, ma intanto, per non arrendersi e non soccombere, si affida alla speranza di vendetta da parte di un futuro Veltro (l’imperatore come dicono i più o Dante stesso, come dice Jung?) che sconfiggerà le tre bestie e lo libererà dalla loro ferocia.

   Di fronte all’esilio dalla sua patria e dalla sua famiglia, per resistere e sopravvivere, egli intanto ricorre al suo più potente strumento, che non può essergli strappato, la poesia, cui si affida nella consolazione, ma che spesso brandisce come una spada per una giusta vendetta: la poesia come arma di lotta, ma anche spesso come espressione di profonda umanità. 

 

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