venerdì 12 marzo 2021

 

OMAGGIO A DANTE: 1321 – 2021

                             LA POESIA COME ARMA VENDICATIVA

 

  Esta selva selvaggia aspra e forte/ Che nel pensier rinnova la paura” (Inf.Canto I)  è la trappola di calunnie lanciate contro Dante per eliminarlo dalla vita politica di Firenze, in quanto uno dei sei priori e, dunque, uno del gruppo dirigente di parte bianca del governo della città. Coloro che hanno ordito la trappola con la conseguente condanna sono i tre nemici personificati nelle tre fiere: Bonifacio VIII, i fiorentini  e Carlo di Valois.

    Dal giorno in cui seppe di essere condannato all’esilio, Dante dovette peregrinare per varie corti d’Italia ad elemosinare un asilo politico ed esistenziale, e a “conoscere quanto sa di sale / lo pane altrui e quanto è duro calle/ lo scendere e il salir per altrui scale” (Par. Canto XVII: con la conseguenza di una carriera politica distrutta, di una vita familiare sconvolta, di un’esistenza ormai resa tormentata a fronte di un futuro precario e minaccioso.

  Un uomo dalla statura morale e culturale di Dante, così calunniato ed offeso, non può non lottare per una rivalsa, non può non reagire fino a sviluppare momenti di spirito di vendetta nei confronti di coloro che gli hanno tolto il diritto di agire per il bene di Firenze, che lo hanno allontanato dalle gioie della casa e della famiglia e che lo hanno bandito dalla patria.

   Ma Dante è solo, non ha un esercito e non può che sperare nell’avvento del Veltro e nell’intervento dell’imperatore Arrigo VII. Ha però un’arma, una sola arma incruenta ma potente, la poesia, che può brandire come strumento di propaganda nel suo tempo e come spada da affondare dentro la storia per agire vendicativamente nell’eterna posterità.

   Con i suoi versi affilati come lame, lancia la sua vendetta contro Bonifacio VIII nel diciannovesimo canto in cui tratta della pena del contrappasso dei simoniaci. Là interroga papa Nicolò III Orsini, che fa rispondere con involontario sarcasmo: ”Se’ tu già costì ritto/ Se’ tu già costì ritto Bonifazio? / Di molti anni mi mentì lo scritto. / Se? tu tosto di quell’aver sazio// Per lo qual non temesti torre a inganno/ La bella donna, e poi di farne strazio?”

   E’ una situazione comica, in cui Dante fa rimproverare Bonifacio VIII  da Nicolò III, che con sarcastica impudenza gli rinfaccia gli stessi suoi peccati, che poi sono quelli propri della lupa nella selva oscura,  se’ tu tosto di quell’aver sazio…”, cioè la cupidigia dell’ avere, per cui si ha “più fame che pria” (Inf. Canto I).

   In quella situazione, Dante verso il suo nemico Bonifacio non lancia invettive, come fa Iacopone da Todi nelle sue Laudi, che lo colpisce con un linguaggio così aspro che sa di colpi di scure e di clava; ma nei suoi versi pare che si diverta con colpi di fioretto, con un linguaggio che irride e insieme sbeffeggia Bonifacio VIII: potrei dire con una vendetta servita fredda, che si prolungherà nella storia, fino a noi e oltre noi attuali lettori.

  A questo mira Dante, cioè a vendicarsi col distruggere l’immagine di Bonifacio VIII macchiandone la fama nella storia. Bonifacio VIII ha sconvolto la vita di Dante nella sua esistenza; Dante lo ripaga d’altra moneta ben più solida, perché ne distrugge la fama, cioè nella dimensione che va ben oltre l’esistenza e a cui i personaggi danteschi si richiamano con un sentimento così intenso che essa sembra sia un effettivo prolungamento della vita terrena. 

  E Dante non lascia la presa con l’episodio di Niccolò III e i simoniaci. Ci ritorna nel ventisettesimo Canto con l’episodio di Guido da Montefeltro, condannato nella bolgia in cui stanno coloro che in vita consigliarono altri  ad agire con frode.

   E Dante qui non dà più di fioretto sarcastico, va dritto con colpi d’ascia contro Bonifacio VIII. Fa dire a Guido: “Se non fosse il gran prete a cui mal prenda!/ Che mi rimise nelle prime colpe”(Canto XXVII, v.70-71). Infatti, BonifacioVIII, maligno ingannatore a sua volta, gli promise l’assoluzione preventiva, sostituendo il suo come vicario di Dio, al giudizio di Dio, e lo convinse a suggerirgli l’inganno con cui distruggere Palestrina ed abbattere i Colonna suoi nemici.

 E poi fa soggiungere a Guido: Dopo che io volevo emendarmi dalle colpe del passato, facendomi francescano, venne da me lui, “il principe dei farisei” (Canto XXVII- v. 85) che mi fece cadere di nuovo nelle antiche mie colpe.

   Dunque, qui, con “il gran prete a cui mal prenda!” e con “il principe de’ farisei” siamo ai modi delle invettive di Iacopone. Ma Dante si riprende subito e torna al fioretto dell’ironia, al sarcasmo, facendo dire al diavolo che aveva preso Guido, dopo una lezioncina di logica sul principio di non contraddizione e con maligno sarcasmo, “Tu non pensavi ch’io loico fossi” Canto XXVII-v123).

  Così Dante si vendica della “lupa”, di BonifacioVIII, precipitandolo all’inferno già prima della sua morte: a parte l’inferno, oggi sono i versi di Dante che dannano il suo nome, è la sua  cattiva fama  che i versi della Commedia fissano nella memoria dei posteri di tutto il tempo posteriore alla composizione della Commedia, dentro la storia. E questa è la vendetta maggiore, perché l’uomo cerca di sopravvivere a se stesso nella fama, nel ricordo di sé presso coloro che vivranno: Ed ora Bonifacio VIII non potrà mai più essere ricordato come  papa cristiano nell’animo, ma sarà ricordato per sempre dai posteri come assetato di potere, simoniaco, come tessitore d’intrighi, e soprattutto             ingannatore di uomini.

 

 

 

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