giovedì 1 aprile 2021

                       LA POESIA COME ARMA VENDICATIVA

  La lupa, la lonza e il leone sono le tre bestie che “nel mezzo del cammin di nostra vita” e nella “selva selvaggia aspra e forte/ Che nel pensier rinnova la paura” si oppongono a Dante nella sua risalita verso il monte della speranza.

   Se le tre bestie nemiche sono i simboli dei suoi tre nemici, a parte le interpretazioni dei numerosissimi e autorevolissimi commentatori della Commedia, allora la lupa personifica Bonifacio VIII, il leone Carlo di Valois, ed è evidente che la lonza “dalla gaietta pelle” (le interne fazioni dei fiorentini) stia a rappresentare Firenze, come origine di tutti i mali del Poeta.

   Dante è stato colpito con le calunnie nella sua dignità personale e con l’esilio nei suoi affetti più profondi, nonché nei suoi interessi economici, sociali e politici; egli perciò è spinto a reagire con tutte le sue forze e le sue armi, comprese quelle più aspre, a vendicarsi per quanto gli è possibile, dei suoi nemici, specialmente dei suoi concittadini, da cui si sente offeso e tradito mortalmente.

   Con la condanna all’esilio e la minaccia di morte è ridotto ad essere solo contro tutti, senza altre armi che la sua poesia, con cui si scaglia contro Firenze e i suoi concittadini, a volte superando anche i limiti del suo senso di giustizia. Impossibilitato a reagire concretamente nel presente, egli non può che vendicarsi nella storia, distruggendo con i suoi versi la fama dei suoi avversari, specialmente dei suoi concittadini. Lo fa in diversi episodi della Commedia, ma io qui mi limito a rifermi solo ad alcuni che più mi colpiscono.

    Così nel Canto VI dell’Inferno, quando incontra Ciacco, gli fa dire: “La tua città ch’è piena/ D’invidia che già trabocca il sacco”.E questa non è una carezza per  la sua amata Firenze. E su richiesta di Dante, Ciacco soggiunge: “Dopo lunga tencione/ verranno al sangue e la parte selvaggia/ Caccerà l’altra con molta offensione/ Poi appresso convien che questa caggia/ Infra tre soli, e che l’altra sormonti/ Con le forze di tal (alludendo a Carlo di Valois) che testé piaggia”. Qui ci si può sottindendere la domanda: In questa città così turbolenta e crudele tutti i cittadini hanno invidia l’uno dell’altro e ognuno odia l’altro? E Ciacco la previene e risponde: “Giusti eran due (uno è Dante?) e non vi sono intesi/ Superbia, invidia e avarizia sono/ Le tre faville ch’hanno i cuori accesi”.

    Il giudizio che Dante fa pronunciare a Ciacco sulla sua Firenze e sui suoi concittadini sa di colpi di staffile. Non l’ironia dunque, non il sarcasmo che può affiorarare in un animo distaccato o anche turbato, ma staffilate che vengono da un cuore lacerato e sanguinante, combattuto tra amore e odio, carico di risentimenti vendicativi e livore che rasenta l’ingiustizia, poiché anch’egli aveva fatto parte precedentemente alla cacciata dei Neri.

    Non meno significativa è la vendetta poetica di Dante nei confronti del concittadino Filippo Argenti nel Canto VIII dell’Inferno. Nei confronti di questo suo concittadino dannato tra gli iracondi, il sentimento vendicativo è implicito, poiché Dante non ne dice il motivo, , ma tutto l’episodio e specificamente il risentimento di Dante fanno dedurre un forte spirito vendicativo del Poeta e pensare ad un motivo del tutto personale non rivelato, ma volutamente taciuto.

   Più che di sarcasmo sembra trattarsi di un vero e proprio insulto aggressivo, allor che gli si rivolge dicendogli: ”Ma tu chi se’ che sì se’ fatto brutto?” L’Argenti non dice il suo nome, ma Dante lo aggredisce: “Con piangere e con lutto/ Spirito maledetto ti rimani/ Ch’i’ ti conosco ancor se’ lordo tutto”. Poi però Dante fa gridare il nome di lui da tutti i condannati suoi compagni: “A Filippo Argenti!” / E il fiorentino spirito bizzarro / In sé medesmo si volvea co’ denti”. Così la sua fama veniva distrutta nelle future generazioni, gravissima condanna in quanto  “dannazio memoriae” già largamente praticata con altri mezzi dai romani.

   Nel canto XV dell’Inferno, fra i violenti contro natura, Dante ha un incontro col suo maestro Brunetto Latini. Un incontro così sorprendente che  fa esclamare Brunetto, rivolto a Dante: “Qual maraviglia!”;  che poi con l’espressione di un grande affetto aggiunge: “O figliuol mio, non ti dispiaccia/ Se Brunetto Latino un poco teco….” Nei versi traspira l’atmosfera di affetto, che è propria del rapporto maestro-scolaro. E bella è l’espressione del Maestro nel riconoscere nell’antico alunno il genio ormai fiorito nella poesia, tanto che dice a Dante:: “…Se tu segui tua stella/ Non puoi fallire a glorioso porto/ Se ben m’accorsi nella vita bella/ E s’io non fossi sì per tempo morto/ Veggendo il cielo a te così benigno/ dato t’avrei all’opera conforto”.

   Ma poi gli predice le disgrazie che gli saranno procurate da Firenze:   “…. Ma quello ingrato popolo maligno/… Ti si farà per tuo ben far nemico/ … “Vecchia fama nel mondo li chiama orbi/ Gente è avara, invidiosa, superba/ Da lor costumi fa che tu ti forbi.

    Voglio concludere questo mio breve discorso con un’ultima nota, un ultimo  “episodio”,  quello  dei dannati per furti. Dopo che nel Canto precedente Dante aveva descritto le trasformazioni serpentesche  di cinque ladri fiorentini, inizia il successivo Canto XXVI con l’invettiva:” Godi Fiorenza, poiché se’ si grande7 Che per mare e per terra batti l’ale….” Il sarcasmo di questi versi contro la sua Firenze, resa famosa per i suoi ladri, risuona tagliente e forte nella storia letteraria del mondo presente e futuro.; una bella vendetta per il cittadino e l’uomo Dante.

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