giovedì 13 marzo 2014


                  ANCORA SULLA POESIA SATIRICA
   Satira: da satyrus o da satura? Da satiro o da piatto di varie vivande? Strana ambiguità dell’origine di questa parola. E della satira stessa.     Vocabolari e storiografia letteraria sono concordi: la satira trae il suo nome da satura, cioè da un piatto di varie vivande offerto agli dei, in quanto composizione di forme e contenuti variabili, di versi e prosa.   D’altra parte, però, basterebbe non trascurare quello che scrivono gli storici dell’antichità, ad esempio Dionisio di Alicarnasso. Si coglierebbe facilmente la parentela della satira con le danze e i canti dei romani nei primi secoli, specialmente con le danze sicinnide  e i canti fescennini, quindi con ciò che è indicato da satyrus.    Dionisio di Alicarnasso nella sua Storia di Roma arcaica (siamo nel V sec. A.C.) nel Cap. VII al punto 72.10, a proposito delle processioni, scrive: “Infatti ai danzatori armati facevano seguito i danzatori travestiti da satiri, che imitavano le danze sicinnide….. coloro che rappresentavano i satiri avevano  perizomi e pelli di capre e, sul capo, irte criniere e altre simili cose. Costoro motteggiavano e imitavano i movimenti solenni, volgendoli in ridicolo”.    Poi prosegue al punto 72.11: “ Anche l’ingresso dei cortei trionfali dimostra che il motteggio e lo scherzo satiresco sono per i Romani un’antica usanza locale. Infatti è consentito a quelli che partecipano ai trionfi di schernire e motteggiare i personaggi in vista, fossero anche generali”.  E ancora: “….. In un primo tempo, i soldati facevano parodie in prosa, mentre ora cantano versi improvvisati”. Al punto 72.12 aggiunge: “ Ed io vidi anche durante i funerali di uomini illustri, insieme con altri, in processione, gruppi di danzatori, travestiti da satiri, che precedevano il feretro e che si muovevano al ritmo della sicinnide, soprattutto durante le esequie dei ricchi”.   Sappiamo che questa tradizione popolare, diciamo anche plebea, giunge fino alle soglie dell’Impero, quando i legionari nei cortei trionfali di Cesare cantavano: “Ecco, ora trionfa Cesare che sottomise le Gallie e non trionfa Nicomede che mise sotto Cesare”.    Se si raccogliessero e raccordassero i verbi “schernire, motteggiare, facevano parodie” di cui parla Dionisio, si vedrebbe bene che questi sono i verbi propri di quella che poi sarà la satira nel suo manifestarsi nella storia letteraria. Si vedrebbe bene che, muovendo dai modi espressivi di coloro che, coperti di pelli di capre, rappresentavano i satiri, i  poeti e scrittori dei secoli seguenti realizzeranno opere letterarie non solo con linguaggio di scherno e motteggio, ma con linguaggio di raffinata ironia, di sarcasmo, come con Marziale,  di critica e denuncia, e ancora di linguaggio beffardo, caustico, mordace, fino anche alla violenta fustigazione morale, come con Giovenale.  Ma tant’è! Gli storiografi e i letterati forse non vogliono che sia confusa la forma letteraria e poetica con lo schiamazzo del volgo, non vogliono riconoscersi nell’originaria parentela con la rozza improvvisazione popolaresca e plebea. Essi badano alla forma che non può nascere, secondo loro, per dirozzamento e depurazione di un vile sentire, ma può nascere come stile solo dalla genialità di menti che  distillano la forma  da un piatto di vivande, da un minestrone, destinato agli dei e perciò materia di nobile espressione.   Forse con la psicoanalisi si potrebbe dire che il complesso di superiorità nei confronti del volgo conduce sicuramente a distorsioni strabiche anche nella realtà della storia. Eppure proprio essi, i letterati ed anche gli storiografi, dovrebbero sapere meglio degli altri che la lingua tanto più fiorisce ed è nobile  quanto più essa si origina dal dialetto e di questo si nutre.    Dobbiamo malinconicamente, però, concludere che oggi si è ritornati al punto di origine. Si è conclusa la parabola della satira, sicché essa quasi scompare dalla letteratura, per ritrovare se stessa nella comicità rozza e grassa, buona di nuovo per la plebe, non più nei cortei e nelle piazze, ma in certi frequenti spettacoli televisivi e nelle sempre più rare vignette che appaiono ancora in qualche pagina di giornale. Così ci coglie la tristezza per come vanno le cose nel mondo.

 

 

 

 

 

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