ANCORA SULLA POESIA SATIRICA
Satira: da satyrus o da satura? Da satiro o
da piatto di varie vivande? Strana ambiguità dell’origine di questa parola. E
della satira stessa. Vocabolari e storiografia letteraria sono
concordi: la satira trae il suo nome da satura, cioè da un piatto di varie vivande offerto agli
dei, in quanto composizione di forme e contenuti variabili, di versi e prosa. D’altra parte, però, basterebbe non
trascurare quello che scrivono gli storici dell’antichità, ad esempio Dionisio
di Alicarnasso. Si coglierebbe facilmente la parentela della satira con le
danze e i canti dei romani nei primi secoli, specialmente con le danze
sicinnide e i canti fescennini, quindi con ciò che è indicato da satyrus. Dionisio di Alicarnasso nella sua Storia di Roma arcaica (siamo nel V sec.
A.C.) nel Cap. VII al punto 72.10, a proposito delle processioni, scrive: “Infatti ai danzatori armati facevano seguito
i danzatori travestiti da satiri, che imitavano le danze sicinnide….. coloro
che rappresentavano i satiri avevano
perizomi e pelli di capre e, sul capo, irte criniere e altre simili
cose. Costoro motteggiavano e imitavano
i movimenti solenni, volgendoli in ridicolo”. Poi prosegue al punto 72.11: “ Anche l’ingresso dei cortei trionfali
dimostra che il motteggio e lo scherzo satiresco sono per i Romani un’antica usanza
locale. Infatti è consentito a quelli che partecipano ai trionfi di schernire e motteggiare i personaggi in vista, fossero anche generali”. E ancora: “….. In un primo tempo, i soldati facevano parodie in prosa, mentre ora cantano versi
improvvisati”. Al punto 72.12
aggiunge: “ Ed io vidi anche durante i
funerali di uomini illustri, insieme con altri, in processione, gruppi di
danzatori, travestiti da satiri, che precedevano il feretro e che si muovevano
al ritmo della sicinnide, soprattutto durante le esequie dei ricchi”. Sappiamo che
questa tradizione popolare, diciamo anche plebea, giunge fino alle soglie
dell’Impero, quando i legionari nei cortei trionfali di Cesare cantavano: “Ecco, ora trionfa Cesare che sottomise le
Gallie e non trionfa Nicomede che mise sotto Cesare”. Se si raccogliessero e raccordassero i verbi
“schernire, motteggiare, facevano parodie” di cui parla Dionisio, si vedrebbe
bene che questi sono i verbi propri di quella che poi sarà la satira nel suo
manifestarsi nella storia letteraria. Si vedrebbe bene che, muovendo dai modi
espressivi di coloro che, coperti di pelli di capre, rappresentavano i satiri,
i poeti e scrittori dei secoli seguenti
realizzeranno opere letterarie non solo con linguaggio di scherno e motteggio,
ma con linguaggio di raffinata ironia, di sarcasmo, come con Marziale, di critica e denuncia, e ancora di linguaggio
beffardo, caustico, mordace, fino anche alla violenta fustigazione morale, come
con Giovenale. Ma tant’è! Gli storiografi e i letterati
forse non vogliono che sia confusa la forma letteraria e poetica con lo
schiamazzo del volgo, non vogliono riconoscersi nell’originaria parentela con
la rozza improvvisazione popolaresca e plebea. Essi badano alla forma che non
può nascere, secondo loro, per dirozzamento e depurazione di un vile sentire,
ma può nascere come stile solo dalla genialità di menti che distillano la forma da un piatto di vivande, da un minestrone,
destinato agli dei e perciò materia di nobile espressione. Forse con la psicoanalisi si potrebbe dire
che il complesso di superiorità nei confronti del volgo conduce sicuramente a
distorsioni strabiche anche nella realtà della storia. Eppure proprio essi, i
letterati ed anche gli storiografi, dovrebbero sapere meglio degli altri che la
lingua tanto più fiorisce ed è nobile
quanto più essa si origina dal dialetto e di questo si nutre. Dobbiamo malinconicamente, però, concludere
che oggi si è ritornati al punto di origine. Si è conclusa la parabola della
satira, sicché essa quasi scompare dalla letteratura, per ritrovare se stessa
nella comicità rozza e grassa, buona di nuovo per la plebe, non più nei cortei
e nelle piazze, ma in certi frequenti spettacoli televisivi e nelle sempre più
rare vignette che appaiono ancora in qualche pagina di giornale. Così ci coglie
la tristezza per come vanno le cose nel mondo.
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