martedì 16 aprile 2013


                                          COME ERANO
                  (e come siamo rimasti dopo circa due secoli)
   Ho aperto un volume del Belli a caso, come spesso mi accade con alcuni libri,  ed ho letto il sonetto che riporto qui di seguito.
                              IL CARRETTIERE DELLA LEGNARA
                         Pe’ la soccita mia de la vittura
                         De li carretti da carcà la legna,
                         M’è toccato a girà ‘na svojatura
                         De cinque tribbunali  de la fregna.

                         Sortanto pe’ la carta de conzegna,
                         L’A.C. du vorte, e dua l’Inzegnatura!
                         Po’ in Campidojo, e in Rota, e in zepportura,
                         Che s’ignottischi sta razzaccia indegna.

                         Poi, come sto llì llì pe’ la sentenza,
                         Viè er Fiscal de le Ripe, e in du’ segnetti
                         Scassa tutto e jè dà d’incompitenza.

                        E io ‘ntanto, co’ tutti sti giretti,
                        Co’ sto sciupio de tempo e de pacenza,
                        Vinse la lite e nun ciò più carretti.
                                                 Roma, 4 dicembre 1832.
   Per bocca di un popolano, dunque, il Belli ci descrive, tra polemica e satira, i garbugli della burocrazia e della giustizia amministrativa del suo tempo e dello stato papalino. Vi si legge da una parte la rabbia del cittadino angariato (in questo caso un carrettiere che chiede i suoi diritti in ordine alla licenza di vettura per il trasporto della legna con una sua società = “soccita”) e dall’altra il passaggio obbligatorio e vessatorio da un ufficio all’altro, come alle forche caudine, per l’esecuzione della pratica e per dirimere e giudicare nel merito della lite.
    In calce al sonetto, trovo una nota in cui si riporta quanto dice il Farini in merito a quegli uffici. Vi leggo che “l’Inzegnatura”, di cui appunto parla il Belli, cioè il Tribunale della Segnatura, era presieduta da un cardinale   ed era composta da otto prelati, ciascuno remunerato con cinquanta scudi mensili (una bella cifra per quel tempo!). Dice anche il Farini che quel Tribunale non godeva di buona fama, tanto che (lo dice sempre la stessa nota) un giudice nel 1845 falsificò una sentenza: è vero che per questa colpa poi fu cacciato, ma con l’assegno di una pensione di cinquanta scudi mensili!
   E’ il caso appena di osservare che dopo due secoli circa, dopo la fine dello stato papalino, dopo l’unità d’Italia, dopo la Resistenza, ecc. ecc. le cose non sono cambiate di molto: resta il cittadino vessato che viene mandato da un ufficio all’altro e che perde tempo, denaro, paga le tasse; e resta la burocrazia che non viene mai smantellata o almeno snellita nelle sue matasse ingarbugliate,  perché così come è fatta fa tanto comodo al potere, a quello del passato e a quello del presente.                     .
  Oltre questa considerazione di merito, sui contenuti, me ne viene una formale, ma non marginale, come potrebbe sembrare a prima vista: la poesia del Belli aveva un’efficiente funzione di satira, di sberleffo, di condanna,  verso il potere ed i costumi del suo tempo, insomma era viva ed operativa. Oggi invece la poesia non sembra più avere alcuna funzione in una società che si esprime con vignette, sms,  tweets, ecc. ecc. Forse la poesia non è più in grado di esprimere sentimenti e passioni in una società che semplifica e annulla tutto nell’immediatezza. Forse la poesia è davvero finita! Specialmente quella satirica, sostituita, come pare, dalle battute dei comici e dalle vignette dei disegnatori sui giornali.

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